La “seconda possibilità” di Vito Alfieri Fontana

Vito Alfieri Fontana è un ingegnere, ex proprietario della Tecnovar, azienda pugliese specializzata nella progettazione e nella vendita di mine antiuomo. In seguito a una profonda crisi esistenziale l’ingegner Fontana mise in discussione se stesso, il suo lavoro, i rapporti con la famiglia e in particolar modo con il padre, figura tanto carismatica quanto ingombrante. Il peso della successione e delle responsabilità si scontrarono con l’intima esigenza di interrompere la produzione di mine antiuomo. Una domanda lo assillava: quante vittime avrà causato il lavoro della Tecnovar? La risposta a questa domanda divenne inquietante, pesante ma rappresentò per Fontana anche il punto di partenza di un viaggio esistenziale che lo portò per quindici anni dall’Italia verso i luoghi delle guerre come la Bosnia Erzegovina dove ancora oggi squadre di sminatori sono attive nella bonifica dei terreni. Nel conflitto tra dovere e coscienza si muovono i passi di un uomo in cerca di riscatto, seppur consapevole che il bilancio tra bene e male non potrà mai più essere in attivo. E’ così che Vito Alfieri Fontana, dopo una profonda crisi morale, passò dall’altra parte della barricata, diventando coordinatore degli sminatori in Bosnia e non solo nel cuore dei Balcani. Questa è la storia, vera e dolente, narrata ne “Il successore”, che il giovane regista leccese Mattia Epifani, ha portato qualche tempo fa sullo schermo raccontando un conflitto interiore che affligge molti: la crisi di Fontana infatti nasceva dal dover decidere se seguire le orme del padre o al contrario opporsi alla produzione di quell’oggetto distruttivo che sono le mine antiuomo. Scelse la seconda strada. Ottenuto un importante successo all’IDFA di Amsterdam, il più importante festival internazionale del film documentario, l’opera ( prodotta da Apulia Film Commission con la Fluid Produzioni) vinse come migliore film sul mondo del lavoro il Premio Cipputi al Torino Film Festival nel 2015. Il film venne realizzato grazie ai fondi del Progetto Memoria, un bando indirizzato alla produzione di piccoli grandi film con l’obiettivo di realizzare e promuovere il documentario di narrazione. “Sono orgoglioso che Torino mi abbia regalato questo premio particolarmente legato all’attualità della condizione umana, del lavoro, della società civile. Questa non è la classica vicenda di redenzione ma il racconto di un uomo che ha rinnegato se stesso per darsi una seconda possibilità”, sottolineò in quell'occasione Mattia Epifani. Nei cinquantadue minuti della pellicola la difficile storia di Vito Alfieri Fontana scorre parallela per una buona metà del film a quella di uno sminatore bosniaco che durante una missione perse una gamba. In un secondo tempo, si scopre che i due sono diventati amici e collaboratori, dal momento che Fontana decise di dare una svolta alla sua vita. Un film sobrio e corretto, affidato sostanzialmente a quattro serie di contributi: un diario a ritroso di Vito Fontana, che in voce fuori campo commenta e riassume i bilanci della sua vita, l’attività del futuro collega bosniaco, uno sguardo intenso su natura, paesaggi balcanici e i freddi e muti scenari di una guerra del passato, e una raccolta minore di filmati di repertorio, pescati per lo più tra materiali pubblicitari o promozionali dell’azienda Tecnovar. E’ proprio in quei luoghi, sul monte Trebević ( la montagna più bella di Sarajevo) , nei pressi dei resti della pista da bob, residuo delle Olimpiadi invernali del 1984, incontrai Vito Alfieri Fontana mentre stava bonificando quell’area dagli ordigni. La sua è una storia di scelte e di coraggio, e il film – con efficace sobrietà – gli rende merito. Emerge su tutto il protagonista che sfugge alla facile glorificazione delle sue scelte ammettendo, con grande amarezza, nel racconto della sua esperienza, di aver fatto a malapena il suo dovere. Ma, a differenza di tanti, ha avuto la forza di farlo, ha messo in discussione vita, scelte e lavoro, ripensandosi. Una svolta netta che offre, in un contesto duro e drammatico, una speranza.


Marco Travaglini