Autonomia, federalismo e riscatto dei territori montani nella Carta di Chivasso

Indagando la storia contemporanea è possibile rintracciare un segno di riscatto per gli aneliti di autogoverno, autodeterminazione e sviluppo per il Piemonte e i suoi territori montani? Una risposta c’è ed è decisamente affermativa se la data in questione è quella del 19 dicembre 1943, se il luogo è un piccolo centro quasi alle porte di Torino di nome Chivasso e se il nome che si cerca coincide con la “Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine”. Quanti conoscono questa storia? Probabilmente meno di quanti ci si potrebbe augurare, ma a coloro che sono consapevoli della sua importanza e del suo valore non sfugge quanto rappresenti. Si potrebbe definire, infatti, la “prova del nove” del fatto che c’è stato un tempo in cui la montagna è stata uno dei simboli del riscatto nazionale, un tempo fissato nella storia di quei mesi difficili che vanno dall’8 settembre del 1943 alla primavera del 1945. In quelle stagioni drammatiche i monti italiani, dalle Alpi agli Appennini, rappresentarono il luogo fisico nel quale s’inscenava una lotta dura, fatta di resistenza, libertà, speranza nel futuro. A quelle montagne e a quei montanari (soprattutto nella fascia alpina del nordovest) faceva riferimento la “Carta di Chivasso” che, nel freddo dicembre del 1943, segnò l’inizio di un processo originale ed attualissimo, legando alle rivendicazioni antifasciste l’idea dell’autonomia e del federalismo dei territori alpini. Un tema oggi terribilmente attuale, in tutte le terre alte e particolarmente in una provincia piemontese come il Verbano-Cusio-Ossola che, con le consorelle Belluno e Sondrio, rappresenta sul territorio nazionale la montagna vera. Quella montagna dove tutto si declina attraverso il trinomio altitudine, asperità e clima. Un trinomio imperfetto, incompleto, a ben vedere, perché bisognerebbe allargarlo alla difficoltà dei collegamenti, ai costi sociali, alla tutela e promozione di una economia in grado di produrre reddito, alla cura del territorio. A tutte quelle azioni senza le quali è impossibile frenare lo spopolamento e un giorno, magari, invertire la tendenza all’abbandono delle realtà più marginali. Tornando alla Carta, che per molti rappresenta una vera e propria “Costituzione delle terre alte”, si può notare che, in essa, s’incrociavano due aspetti decisivi: l’unicità del territorio montano e il bisogno di autogoverno. Da una parte gli alpeggi, le valli, i boschi che furono luogo di rifugio e di “formazione” per una generazione di democratici che lo scelsero come teatro della lotta di Liberazione; dall’altra gli aneliti d’autogoverno che le popolazioni alpine hanno sempre manifestato e che, in quegli anni, – in qualche modo – si esemplificarono nelle Repubbliche partigiane e, in particolare, in quella dell’Ossola, con il suo governo dei “quaranta giorni di libertà”. C’è, a ben vedere, un nitido legame tra la Resistenza, un progetto di società e di collocazione delle montagne sulla scena nazionale. La “Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine”, meglio conosciuta come Carta di Chivasso, è il frutto di queste riflessioni, discusse in un convegno svoltosi sei giorni prima del Natale del 1943, nella cittadina che oggi fa parte della seconda cintura metropolitana di Torino. La località venne scelta per ragioni prettamente logistiche: era comoda per i collegamenti ferroviari. In quell’occasione, nella casa del geometra Edoardo Pons (zio della moglie di uno dei convenuti, Giorgio Peyronel) avvenne l’incontro tra i rappresentanti della Resistenza valdostana e valdese. Alla riunione parteciparono, in rappresentanza dei valdostani, Emile Chanoux, che era allora il più autorevole esponente del movimento autonomista e che fu torturato e ucciso dai fascisti nel 1944, ed Ernesto Page, uno dei più importanti promotori del CLN valdostano. Mancarono all’appello Lino Binel, arrestato dai fascisti, e Federico Chabod, che riuscì a inviare un suo documento. Per i valdesi furono presenti Osvaldo Coisson e Gustavo Malan, entrambi di Torre Pellice, e i due milanesi Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier, che univano alla militanza nel Partito d’azione e nelle Formazioni “Giustizia e Libertà” quella nel Movimento federalista europeo. Nel corso della riunione, non senza discussioni piuttosto accese, vennero esaminati e discussi alcuni memoriali, preparati nelle settimane precedenti, che sintetizzavano le richieste di particolari forme d’autonomia per le valli alpine. Ecco, dunque, la ragione che sta alla base della “Carta di Chivasso”, rendendola – ancora oggi – attuale e moderna. Buona parte del documento, che venne redatto al termine dell’incontro, è dedicata alla rivendicazione di una forte autonomia delle vallate alpine nel campo politico-amministrativo (si fa esplicito riferimento al modello cantonale elvetico), in quelli della cultura e dell’istruzione (l’obiettivo è rappresentato dal bilinguismo che costituiva un fatto importante in ambienti di frontiera e di forte emigrazione), nonché in quello dell’economia (comprendente, oltre a un più attento controllo sulle risorse locali, anche l’ idea/forza di forme di autonomia fiscale). In tal modo – secondo gli estensori – si sarebbero cancellate le conseguenze, particolarmente rovinose per le vallate alpine, della politica di oppressione delle culture locali attuata costantemente dallo Stato nazionale centralizzatore, esasperata dal regime fascista. Si guardava con occhi nuovi e con ampio respiro al territorio alpino, inquadrandone il futuro nell’ottica di un complessivo rinnovamento dello Stato italiano in direzione “di un regime federale repubblicano a base regionale e cantonale“, inteso come “l’unica garanzia contro un ritorno della dittatura“. Ma non si fermarono lì ed andarono oltre, ipotizzando la realizzazione di un regime federale, a livello italiano, da inserire, a sua volta, nella più larga e audace prospettiva della Federazione europea. Il perché è evidente, e i valdesi lo sostennero con energica passione: a loro giudizio il federalismo “rappresenta la soluzione del problema delle piccole nazionalità e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l’avvento di una pace stabile e duratura“. Un parallelismo tra federalismo interno e federalismo sovranazionale, che si manifestò come risultato dell’incontro tra due visioni che, pur condividendo gli obiettivi, si distinguevano nell’individuazione delle priorità. Da una parte, l’autonomismo di Chanoux che assegnava la priorità strategica al federalismo interno (da cui nasce la base teorica dell’autonomismo regionale valdostano) e, dall’altra, la visione di Rollier, legato ai federalisti di Ventotene, che sosteneva, invece, quella del federalismo sovranazionale. Rollier era un uomo deciso e dalle idee molto chiare. Insieme ad Antonio Banfi, qualche mese prima, il 26 luglio del 1943, aveva redatto il “manifesto” dei docenti universitari milanesi che chiedevano l’abolizione delle discriminazioni razziali, politiche e religiose e il reintegro dei docenti perseguitati dal fascismo. Lo scopo che lo animava era quello di dimostrare come gli Stati Uniti d’Europa fossero l’obiettivo prioritario della lotta politica. “Il problema dell’Unione Europea“, sosteneva con energia, era di farla “ora e non in un indeterminato futuro“, in quanto la Federazione Europea rappresentava l’unica “soluzione armoniosa dei problemi europei“; che non vi erano altre vie percorribili, “poiché la sola alternativa ad essa è l’autodistruzione dell’Europa, della sua cultura e della sua multiforme civiltà in una serie infinita di guerre che prenderebbero vieppiù il carattere di guerre civili“. L’autonomismo era, dunque, per Rollier un aspetto – subordinato – del federalismo, la cui prospettiva era europea e cosmopolita. Lo animava la consapevolezza che le battaglie per la valorizzazione delle “piccole patrie“, non innestate in un quadro politico di più vasto respiro, rischiavano inesorabilmente di degenerare nel micro-nazionalismo se non in qualcosa di peggio (com’è accaduto in molte parti dell’arco alpino europeo in epoche recenti). Dunque, la Carta di Chivasso – che pure è giustamente considerata un momento importante nel processo che ha portato all’autonomia della Valle d’Aosta e delle altre Regioni a Statuto speciale e all’inserimento nella Costituzione repubblicana delle disposizioni relative alle Regioni a Statuto ordinario, alle Autonomie locali e alla tutela delle minoranze – riflette in larga misura la visione che Rollier aveva del problema. Una visione profondamente radicata tant’è che egli continuò questa battaglia anche dopo la Liberazione. A tal proposito scrisse, con lo pseudonimo di Edgardo Monroe, lo “Schema di Costituzione dell’Unione federale europea”. Nella Carta di Chivasso s’imprime forte il segno di quel tempo eppure la sua capacità di offrire scenari nuovi, in grado di aprire una prospettiva, di guardare oltre l’immediato e di ipotizzare un futuro di regole e di azioni che riscattassero i territori montani, la rende del tutto attuale. Ripropone temi ancora aperti, come quello di studiare – e praticare – forme di autonomia più avanzate. Leggendolo si scopre un documento d’impressionante attualità. Pare non risenta il peso degli anni anche se, sulle spalle, ne porta ben settantacinque. Non è giovane, eppure non mostra i segni delle rughe. E’ più o meno su questa base autonomistica che, durante i primi anni della ricostruzione, pur con un profilo istituzionale meno audace, nacque in Valsesia il primo Consiglio di Valle italiano, presieduto da Giulio Pastore. Era il 16 settembre 1946 e a Varallo Sesia s’avviava il percorso degli enti montani che portò venticinque anni dopo, nel 1971, all’istituzione per legge delle Comunità montane. Ma c’è un altro tema molto attuale al quale gli estensori della Carta dedicarono un certo rilievo. Il riferimento è agli aspetti economici e sociali. A tal proposito venivano ipotizzate una forma di federalismo fiscale (una tassazione locale commisurata alle zone economiche, alla ricchezza della terra, controllata ed esatta localmente), la riforma agraria, il controllo delle opere pubbliche ed il potenziamento dell’industria, da affidare – secondo i casi – all’amministrazione regionale o cantonale. Non veniva nemmeno esclusa la possibilità di un’organizzazione più collettivistica dell’economia, ed in questo caso le aziende aventi carattere locale avrebbero potuto essere affidate al (o controllate dal) potere pubblico del territorio. In questa considerazione si rileva come inizi a farsi strada l’idea della tassa di scopo, del ritorno alla montagna di parte delle risorse che questa mette a disposizione della collettività più generale. Idea su cui ancora oggi ci si interroga e si lavora. Oggi come allora la questione centrale resta la stessa, intatta: il sostegno alla montagna è un dovere costituzionale? Domanda retorica ma non banale. Ovviamente, se si pensa al debito che l’intero Paese ha contratto con i montanari, con le popolazioni alpine, è evidente che sì, sostenere le “alte terre” della nazione rappresenta un imprescindibile dovere. La storia del dopoguerra, del resto, è nota. Al pari della Resistenza, che non sarebbe stata possibile senza la montagna, nemmeno la ricostruzione, il “miracolo economico”, un nuovo e diffuso benessere si sarebbero realizzati senza quell’esercito di braccia che dalle vallate del Piemonte e delle altre regioni affluì verso le fabbriche dei fondovalle e delle pianure. Così, col passare del tempo, il debito del Paese verso gli abitanti della montagna non soltanto non è stato saldato ma è aumentato drammaticamente. Negli ultimi decenni si è tentato di limitare i danni ma, realisticamente, bisogna prendere atto dei limiti, dei modesti risultati e dell’enorme distanza – in termini di redditi, possibilità economiche e qualità della vita – che intercorre tra pianure e montagne, tra città, centri urbani di pianura e piccoli paesi in quota. Oggi, più che mai, la montagna non vive una stagione felice e il disagio aumenta: scarsamente rappresentata, malvista e mal considerata, sottoposta al tiro al bersaglio da chi la ritiene più un problema che una risorsa. Eppure la questione montana resta intatta, come un convitato di pietra. La si può ignorare, ma non si può impedire che torni sulla scena, magari debole, malconcia e – sempre più spesso – sfiduciata e rabbiosa: difendere l’ambiente e il territorio, sostenerne lo sviluppo moderno e di qualità, restituendo ai montanari parte dei proventi che altri incamerano sfruttando le risorse naturali di questi territori (come nel caso dell’acqua per l’energia idroelettrica o del legno). Al fine di evitare che la montagna “frani a valle”, diventa urgente quanto inevitabile reimpostarne lo sviluppo (economico, sociale, istituzionale), facendo leva sulle “buone premesse” della Carta di Chivasso. Equivarrebbe a un risarcimento, seppure tardivo: un atto di equità, di riequilibrio e di lungimiranza. Un segno concreto di rispetto e riconoscenza nei confronti di quei “padri della Patria” che pensarono e scrissero in una fredda giornata invernale del 1943 quello straordinario e intuitivo documento, pietra miliare dello spirito autonomistico delle nostre valli e delle nostre montagne.

Marco Travaglini