''Era mio nonno paterno, Domenico, per tutti Minot ''

Pubblichiamo un articolo del nostro socio Fabrizio Gramigni su suo nonno. Il racconto ha ottenuto una "menzione speciale per la testimonianza di significativa rilevanza storica" alla sesta edizione del concorso letterario nazionale di narrativa e poesia "Inchiostro e Memoria" indetto dall'ANPI sezione di Rescaldina (MI)"


Fine di Marzo del 1945 – Torino

<< Cosa vuoi che faccia, che rimanga rintanato come un vigliacco mentre nostro figlio combatte quei bastardi?>>

Domenico sa di reagire alle parole della moglie con troppa irruenza, ma non riesce più a controllarsi. Troppa è la rabbia ingoiata in questi ultimi tremendi anni, troppo grande il rimorso che si porta dentro. La sua generazione ha accettato l’umiliazione dell’ultimo ventennio come il toro sacrificale accetta mansueto la scure del carnefice. Anche se lui aveva capito fin dall’inizio, quando in compagnia dei suoi amici prendeva in giro le sfilate fasciste come fossero una carnevalata. Aveva captato il pericolo, l’euforia pandemica che si era creata intorno al regime, ma non aveva fatto molto di più.

Lui aveva combattuto con onore per l’Italia nella prima guerra mondiale, e ora sarebbe toccato ai giovani difendere il sacrosanto valore della libertà. Così si era limitato a fare ostruzionismo, a collaborare con le staffette partigiane, ad aiutare il movimento antifascista che stava crescendo in tutta Torino. Nel tempo libero non partecipava a nessun evento pubblico e si rifiutava di indossare la camicia nera, rischiando non poco, dato che la polizia federale lo stava tenendo d’occhio. Non era tanto, lo sapeva, ma fino ad allora credeva che potesse bastare.

<< Ma, Minot, cosa vorresti fare?>>. La dolce voce della sua Tina lo riporta di colpo alla realtà.

<<Combattere, naturalmente! Ho quarantasette anni, ti sembro troppo vecchio? >>.

<< Solo perché Aurelina non ci ha ancora portato notizie di Franco?  Io lo sento che è vivo, e non voglio stare in pensiero anche per te!>>.

<< Diamine, donna, lasciami fare il mio dovere!  O vuoi avere accanto a te per il resto dei tuoi anni un uomo lacerato dal rimorso?>>

A quelle brusche parole del marito, Elisabetta si rassegna, così come si è dovuta rassegnare al volere del suo unico amato figlio. Prima di scoppiare a piangere riesce ancora a dirgli quello che più gli preme << Promettimi almeno che rimarrai a Torino, che non mi lascerai sola. Ti prego, amore mio...>>.


Una mattina di inizio Aprile del 1945 – Collina di Superga, Torino

<< Signore, stanno arrivando! >>. Il ragazzo trema visibilmente, ma il coraggio non gli manca di certo.

Domenico vorrebbe prendersi un attimo di riposo. Da quando si è arruolato nei corpi cittadini di liberazione ha dormito pochissimo. Dopo neanche una settimana, svegliato di notte, gli hanno chiesto se, data la sua esperienza , fosse stato disposto ad intraprendere un’azione rischiosa: al comando di un pugno di volontari doveva occupare una batteria antiaerea sottratta ai fascisti da un’incursione partigiana la sera prima. L’ordine è di fingersi repubblichini fino al tramonto del giorno dopo, non fare fuoco sugli alleati in caso di attacco aereo, sabotare i cannoni e impossessarsi dei mitragliatori. Era un’impresa difficile, ma si doveva tentare. Anche se da Madonna del Pilone a Gassino e su tutto il versante Chierese la collina brulicava di postazioni nemiche, la possibilità di danneggiare e sottrarre al nemico quelle potenti armi era una soluzione audace ma opportuna. Infatti quello che aveva trovato nella postazione fascista era un arsenale bellico di primordine: un cannone 90/53 Ansaldo, due cannoni mobili leggeri 76/42, una mitragliera pesante 37/54 e due mitragliatrici da 7,7. Tutte ottime armi, tutte di costruzione italiana.

<<Signore, sono tanti!>.

Domenico esce di corsa dal piccolo bunker scavato a ridosso dell’altura. Correndo si fa passare dal giovane il binocolo e, appena si trova all’aperto, inizia ad ispezionare il versante della collina che scende fino a Chieri.

<<Sono aerei, signore, lassù!>. Il vecchio soldato punta il binocolo dove il ragazzo gli fa cenno con il braccio teso. Uno stormo di B-24 e B-17 americani sta entrando nel raggio di tiro. Punta a colpire le arterie di Torino, il nodo ferroviario di via Nizza .

Domenico riesce a contare più di due dozzine di aerei, tanti, e tutti bombardieri pesanti. Quando nel mezzo della formazione nota l’inconfondibile sagoma delle “fortezze volanti” gli si gela il sangue a pensare alle bombe da 6.000 libbre che stanno per essere sganciate sulla sua città. Il cielo sopra Torino diventa color del piombo, e il rumore assordante dei quadrimotori riesce a coprire quello delle centinaia di sirene.

Gli ordini sono quelli di non fare fuoco sugli alleati, ma, Dio mio, come si fa a restare a guardare impotenti? Laggiù c’è mia moglie, c’è la mia vita!

<< Signore, cosa dobbiamo fare ?>>. Quella voce lo distoglie dai suoi disordinati pensieri.

<< Tutti ai vostri posti, svelti! >>. I suoi uomini sono per la maggior parte ex militari e sanno come comportarsi. << Direzionate il tiro alla coda e contate fino a cinque… quattro, cinque, fuoco! >>.

I colpi della sua batteria vanno tutti volontariamente a vuoto. Fortunatamente anche dalle altre postazioni nazi-fasciste il fuoco risulta impreciso mentre su Torino inizia un incessante bombardamento.

<< Ricaricare! Tenetevi pronti a fare fuoco quando saranno fuori dal centro abitato. Mirate sempre alla scia e mai sulla traiettoria, deve sembrare che facciamo sul serio! >>. Domenico non può non dare ancora l’ordine di sparare, per non attirare l’attenzione e il sospetto delle altre postazioni che, finito l’attacco, sarebbero potuti venire a controllare.

Il vecchio soldato si accorge in quel momento che il bombardamento su Torino è terminato, anche se si sentono ancora gli aerei alleati sovrastare il cielo della città. <<Non sparate! >>.

Il suo giovane attendente è stato recentemente ferito ad una gamba in uno scontro a fuoco con la milizia delle RSI nei pressi di Sassi, ma, come se il dolore non gli appartenesse, corre zoppicando verso di lui con un grosso sorriso stampato sulle labbra. Ce l’avevano fatta. Erano stati bravi.

Domenico non pensava che avrebbe dovuto affrontare un attacco aereo, l’eventualità era remota. Gli americani non bombardavano Torino da tempo. Proprio quel giorno doveva succedere!

Domenico è immerso nei suoi pensieri e si accorge solo all’ultimo, attirato dai richiami dei suoi uomini, che qualcosa non va: un rumoroso B-17 si avvicina alla collina, ad alta quota, tenendosi fuori dal tiro delle postazioni antiaeree. Forse è l’itinerario del tracciato che lo riportano alla base, o forse è perché ha ancora qualche confetto da…

<<Tutti al riparo! >>. È troppo tardi. Appena l’aereo sorvola la postazione italiana una grossa bomba viene sganciata.

<<Tutti a terra! >>. L’impatto è tremendo e scuote la collina come fosse di gelatina.

Domenico viene scaraventato a una decina di metri da dove si trovava, e perde i sensi per alcuni minuti. Quando faticosamente riesce a mettersi in ginocchio quello che vede davanti a lui lo fa tremare. Molti dei suoi uomini giacciono a terra in maniera scomposta, alcuni con gli arti a poca distanza dal corpo. Si gira alla sua destra con il respiro bloccato dalla paura per cercare con lo sguardo il ragazzo che pochi istanti prima gli stava venendo incontro.

Il povero Carlino è a pochi passi da lui, riverso sulla schiena. Non si muove. Solo gli occhi spalancati non sono coperti dal suo sangue, occhi che ancora trasmettono lo stupore della sua ultima emozione.

Allora Domenico urla, urla con tutta la forza che gli resta nei polmoni, con tutta la disperazione che gli lacera l’animo. Ma non sente niente, la sua voce sembra provenirgli da molto, molto lontano. Sente solo scendere grosse lacrime che si fanno spazio sul volto sporco di terra.

I partigiani non furono in grado di soccorrere i feriti, ma Domenico riuscì a non farsi prendere quando la collina fu nuovamente occupata dai fascisti. Non rientrò a casa, fece avere sue notizie alla moglie e rimase nascosto fino alla fine di aprile. Quando i primi contingenti di partigiani entrarono in Torino si unì a loro nell’insurrezione generale.

Mio nonno perse quasi totalmente l’udito dopo quel tragico giorno. Ho nostalgia di quello sguardo fiero, che diventava tenero quando mi vedeva arrivare, e della sicurezza che mi trasmetteva quando ero con lui. Che emozione il ricordo del suo strano, grosso e vetusto apparecchio acustico che lo faceva dannare e dire “boja fauss” infinità di volte prima di riuscire a regolarne il volume. Mi faceva sedere sulle sua robuste ginocchia e mi raccontava quegli anni tremendi in modo che io, bambino, potessi comprendere e mai dimenticare.