Gli scioperi del 1943

Tra il 5 e il 17 marzo di ottant’anni fa le fabbriche torinesi vennero bloccate da una protesta che coinvolse centomila operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni avevano un chiaro intento politico, rivendicando pane e pace, la fine della guerra e il crollo del fascismo. L’ondata che mosse dalla prima capitale d’Italia si estese alle principali fabbriche del Nord Italia. Tra i primi a incrociare le braccia furono le tute blu dell’officina 19 della Fiat Mirafiori. Assieme a loro si fermarono le altre fabbriche torinesi: la Felice Rasetti, Microtecnica, la Grandi Motori, Westinghouse, la Savigliano e le Ferriere. Gli scioperi si estesero a Milano e a Sesto San Giovanni dove i lavoratori lombardi della Falck, Caproni, Ercole Marelli, Officine Fratelli Borletti, Bianchi, Breda e Pirelli continuarono ciò che s’era avviato a Torino. All’una del pomeriggio del 22 marzo gli operai del reparto bulloneria della Falck Concordia di Sesto San Giovanni respinsero i fascisti che avevano raggiunto la fabbrica per reprimere la protesta. In poco tempo la mobilitazione crebbe fino a dilagare. In pochi giorni nel triangolo industriale trecento mila operai cominciano la lotta e questa assunse un significato politico enorme e immediato, anche se, fabbrica per fabbrica, erano state avanzate dagli operai solo rivendicazioni salariali precise e limitate. Le cause iniziali della prima manifestazione erano la scarsità di generi alimentari e per denunciare i prezzi troppo alti, con il costo della vita raddoppiato a causa della guerra. In seguito si aggiunsero la richiesta di cessazione della guerra e la repressione antioperaia e i partiti clandestini antifascisti svolsero un ruolo fondamentale nell’organizzazione delle proteste. “Il fascismo per i lavoratori italiani – scrisse Vittorio Foa, storico sindacalista, tra i padri fondatori della Repubblica - non era solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma era, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”. Di fatto la Resistenza come sfida aperta al regime ebbe inizio proprio con quegli scioperi del 1943. Furono agitazioni in buona parte spontanee che anticiparono l’ondata di proteste del 1944, dall’impronta molto più politica. Le astensioni dei lavoratori ebbero comunque anche una certa influenza su quanto accadde il 25 luglio del ’43, con l’arresto di Mussolini e il passaggio dei poteri nelle mani del maresciallo Pietro Badoglio che di lì a poco dichiarò l’armistizio. Quella ribellione dei lavoratori confermò l’estraneità di gran parte del proletariato al fascismo. Gli operai di Torino e di Milano pagarono duramente le loro scelte coraggiose del 1943 con le denunce al Tribunale Speciale e poi, dopo l’8 settembre, con la deportazione nei lager nazisti. Rispetto all’abulia, all’indifferenza del ceto medio, le tute blu reagirono e lo fecero collettivamente. Per questi motivi si può sostenere che la Resistenza cominciò davvero in quei giorni di marzo.

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Marco Travaglini