Gli scioperi del marzo 1944

Ottant’anni fa, dal 1 all’8 marzo del 1944, gli operai torinesi incrociarono le braccia con uno sciopero generale che coinvolse 70.000 lavoratori. Da Torino l’agitazione si espanse nelle altre regioni del Nord. Fu la prima, unica e imponente mobilitazione generale dei lavoratori nell’Europa occupata dai nazifascisti con parole d’ordine che rivendicavano l’essenziale trinomio di  “pane, pace e libertà”. Persino il New York Times ne scrisse in questi termini nella sua edizione del 9 marzo 1944. A Torino, dove le proteste operaie dopo gli scioperi del marzo dell’anno precedente erano continuate nei mesi successivi all’armistizio dell’ otto settembre e nei mesi di gennaio e febbraio 1944, lo sciopero generale scattò nonostante le “ferie” imposte dalle autorità di governo piemontesi il 29 febbraio con la scusa della mancanza di energia elettrica. Il primo marzo, con tutte le fabbriche ferme, il capo della provincia Paolo Zerbino (successivamente nominato sottosegretario agli Interni della Repubblica di Salò) ordinò la ripresa del lavoro, minacciando la chiusura degli stabilimenti, la conseguente perdita delle retribuzioni, e un giro di vite con arresti, licenziamenti e deportazioni. I lavoratori non si fecero intimidire. Il 2 marzo scioperarono circa 70.000 lavoratori, supportati dai commercianti e da unità partigiane. Torino si fermò. Il 3 marzo la Fiat, seguendo una linea tracciata anche da altri industriali dimostratisi, salvo rare eccezioni, solidali con le forze nazifasciste, decretava la serrata degli stabilimenti. Contemporaneamente, i vertici governativi inviano nelle fabbriche presidi armati. La protesta si protrasse fino all’8 marzo, quando il Comitato di agitazione decise la ripresa del lavoro. La lotta, che si era estesa in altre regioni del Nord, aveva assunto un significato politico molto netto con l’obiettivo di opporsi al regime fascista. Le richieste degli scioperanti erano solo apparentemente economiche poiché attraverso la richiesta di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (blocco dei prezzi dei generi alimentari, aumento dei salari e delle razioni, pagamento delle gratifiche già concesse) si innestarono le parole d'ordine della lotta resistenziale. Agli scioperi del marzo 1944 va dunque attribuito un esplicito significato antifascista e antinazista. Il loro obiettivo immediato era la cessazione delle deportazioni di manodopera e dei trasferimenti di macchinari e impianti in Germania, puntando a sospendere o ridurre al minimo la produzione di guerra. Al termine degli scioperi la repressione nazifascista non si fece attendere e colpì duramente il movimento operaio torinese con arresti, ritiri degli esoneri militari e deportazioni nei campi di concentramento del Terzo Reich. Circa 400 operai, 178 della Fiat, vennero prelevati in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova per essere deportati a Mauthausen dove la maggior parte trovò la morte. “Il fascismo per i lavoratori italiani – scrisse Vittorio Foa, storico sindacalista, tra i padri fondatori della Repubblica - non era solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma era, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”. Di fatto la Resistenza come sfida aperta al regime, iniziata con le agitazioni in buona parte spontanee del 1943, trovò nell’ondata di proteste del 1944 l’impronta più politica. L’Unità del 15 Marzo 1944, sotto l’occhiello  “La classe operaia all’avanguardia della lotta di liberazione nazionale” titolava così: “Lo sciopero generale dell’Italia Settentrionale e Centrale è una grande battaglia vinta contro gli oppressori della Patria”. Un fatto rilevante, un punto di svolta nella lotta di popolo che animava la Resistenza e che continuò fino alla liberazione.


Marco Travaglini