Il genocidio di Rom e Sinti nei campi di sterminio del Terzo Reich

I Rom e i Sinti durante la seconda guerra mondiale caddero vittime dello stesso atroce destino degli ebrei. Il nazismo li dichiarò “razza inferiore” e così furono costretti all’internamento, al lavoro forzato e allo sterminio. Per raccontare ciò che accadde viene usata una parola - Porrajmos o Samudaripen – che probabilmente pochi conoscono. Al pari della Shoah (lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti), durante la seconda guerra mondiale ci fu un altro genocidio: quello dei Rom e Sinti, basato su analoghe teorie razziste. Nella lingua romanì, l’idioma parlato da popolo Rom, Porrajmos vuol dire distruzione, divoramento. Non esiste termine più efficace per spiegare la deportazione e l’annientamento di almeno mezzo milione di persone di etnia Rom e Sinti nei lager dell’Europa Orientale. Anche in Italia molti finirono nei campi di detenzione organizzati dal regime fascista e finirono poi, passando dal lager di Gries-Bolzano, nella rete mortale del sistema concentrazionario nazista. In Germania nel 1939, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, erano molti i gruppi Rom discriminati: tredicimila Sinti, ottomila zingari balcanici, duemila litautikker, un migliaio di lalleri e ancora altri mille fra piccoli gruppi di drisari, lovari, medwasi e kelderari. Nell’ottobre dello stesso anno, dopo l’occupazione nazista della Polonia, le discriminazioni si estesero anche su quei territori e subito dopo su tutte le altre terre occupate dalle armate della croce uncinata. Fu così che nel 1940 per bloccare la diffusione di quella “minoranza degenerata, asociale e criminale” Robert Ritter, psichiatra e neurologo nazista di Tubinga , servendosi dell'Ufficio centrale per “la lotta alla piaga zingara” propose la sterilizzazione forzata di tutti i Rom. Nominato l’anno dopo direttore dell’Istituto di biologia criminale, Ritter curò personalmente la redazione di trentamila schede di Rom tedeschi su cui nella stragrande maggioranza scriveva la parola tedesca evak, vale a dire “evacuata”, eufemistica espressione per un viaggio che destinava i Rom ai lager in attesa di essere poi eliminati. Catturati ovunque, soprattutto nei paesi dell’Est, furono deportati e uccisi nei campi di concentramento di Bergen-Belsen, Sachsenhausen, Buchenwald, Dachau, Mauthausen, Ravensbruck. La bella e struggente canzone di Fabrizio De Andrè intitolata Khorakhané ( A forza di essere vento) li ricorda così: “..i figli cadevano dal calendario/ Jugoslavia,Polonia,Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via..”. I khorakhané (letteralmente, i “lettori del Corano”) sono una tribù Rom musulmana di origine serbo-montenegrina. Il viaggio per loro ha sempre rappresentato una necessità e una tradizione ma nella canzone di De Andrè diventa molto di più: è il simbolo stesso della libertà. La libertà è come il vento che può soffiare continuamente da est a ovest, da nord a sud. A migliaia finirono in quel vento, passando dai camini dei forni crematori dei lager. Così finì atrocemente la vita di almeno mezzo milione di Zigeuner, usando il termine dispregiativo tedesco, cioè gli “zingari”, sterminati dagli assassini razzisti che agivano per conto del Terzo Reich. Oltre ventimila nel solo Zigeunerlager, il campo a loro riservato dentro all’estesa “fabbrica della morte” di Auschwitz-Birkenau, tra il febbraio 1943 e l’agosto 1944. A migliaia trovarono la morte a Jasenovac, il campo di sterminio sulla sponda sinistra della Sava, fiume che divide la Croazia dalla Bosnia, ribattezzato “l’Auschwitz dei Balcani” e costruito nel 1941 dagli ustascia di Ante Pavelic dopo aver istituito lo Stato Indipendente croato con il sostegno della Germania nazista e dell’Italia fascista. Nel nostro paese le prime disposizioni per la persecuzione e l'internamento degli zingari furono emanate l'11 settembre del ‘40. Una circolare telegrafica firmata dal capo della polizia Arturo Bocchini e indirizzata a tutte le prefetture del Paese conteneva un chiaro riferimento all'internamento di tutti gli zingari italiani a causa dei loro comportamenti “antinazionali” e alle loro implicazioni in reati gravi. Nella circolare venne ordinato il “rastrellamento di tutti gli zingari”. Poco più di sei mesi dopo, il 27 aprile 1941, fu emanata un'altra circolare da parte del Ministero dell'Interno con indicazioni riguardanti l'internamento degli zingari. La politica di discriminazione fascista si basò principalmente sulla presenza dello “zingaro straniero” in Italia, accentuando i controlli. Infatti, mentre per gli zingari italiani fu ordinata la reclusione nei campi di internamento, per quelli stranieri era prevista l'espulsione. Negli anni è stato possibile ricostruire una lista abbastanza completa dei luoghi di detenzione per zingari che c'erano nel nostro paese. Testimonianze zingare parlano di campi di detenzione di Agnone e Campobasso in Molise, Perdasdefogu in Sardegna, Teramo e Tossiccia in Abruzzo, Montopoli di Sabina nel reatino, Collefiorito di Guidonia, nelle isole Tremiti, a Ferramonti di Tarsia in Calabria. Dopo l’armistizio e l’occupazione militare tedesca molti campi dell'Italia centrale e meridionale furono smantellati in vista dell'arrivo degli alleati e pertanto esistono pochissime prove della loro esistenza. Da quel momento in poi la maggior parte degli zingari internati fu deportata nei lager campi. Storie drammatiche di vittime dimenticate, accomunate a quelle degli ebrei nelle sofferenze patite e nel medesimo destino di morte. Furono perseguitati, sterilizzati in massa, usati come cavie per esperimenti, destinati alle camere a gas e ai crematori. Ma ancora oggi sembra quasi che il vento ne abbia disperso la memoria, perpetuando l’indifferenza e l’ostilità verso chi è additato come estraneo, diverso. Ricordare questo popolo è più che un dovere perché, come ricorda ancora la bella canzone di De André, porta “il nome di tutti i battesimi, ogni nome il sigillo di un lasciapassare per un guado, una terra, una nuvola, un canto, un diamante nascosto nel pane; per un solo dolcissimo umore del sangue e per la stessa ragione del viaggio..viaggiare”.



Marco Travaglini