Il Giorno della Memoria: da Buchenwald a Mittelbau-Dora

Dal 2005, il 27 gennaio è stato indicato come il Giorno della Memoria, una ricorrenza che unisce l’umanità nella commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Il 27 gennaio del 1945, come ha ricordato l’Assemblea generale delle Nazioni Uniti con la risoluzione 60/7 del 1° novembre 2005, le truppe sovietiche del maresciallo Ivan Konev aprirono i cancelli del lager di Auschwitz-Birkenau, che per dimensione e numero di essere umani torturati, degradati e uccisi, rappresenta il punto più alto del sistema concentrazionario ideato dalla follia criminale nazista. Da quel giorno il mondo cominciò a conoscere l’orrore in cui erano precipitati bambini, donne e uomini di origine ebraica insieme con persone affette da disturbi mentali, minoranze etniche, prigionieri di guerra slavi e non, oppositori politici. E da quel giorno non fu più possibile affermare, nonostante i reiterati tentativi di laido revisionismo, che non era accaduto nulla, che tutto era come prima. No, non lo era, come ci racconta Marco Travaglini, con le sue note di un viaggio in Turingia.

Nella Turingia, regione della Germania centro-orientale un tempo territorio della DDR, a meno di dieci chilometri da Weimar si trova il campo di concentramento di Buchenwald. Quello che fu uno dei più importanti campi di prigionia e di sterminio nazisti sul suolo tedesco venne istituito tra il 1937 e il 1945 a poca distanza dalla città che, tra il ‘700 e l’800 fu la culla della cultura europea, dove vissero Johann Sebastian Bach, Wolfgang Goethe, Friedrich Schiller, Franz Liszt, Richard Wagner e Friedrich Nietzsche.

Tra le vittime la principessa Mafalda di Savoia

Nel campo, costruito sulla boscosa collina dell’Ettersberg (Buchenwald significa letteralmente “bosco dei faggi”) vennero internati circa 250 mila uomini provenienti da tutti i paesi europei. Un quinto di loro non sopravvisse e tra loro vi fu anche la principessa Mafalda di Savoia. Sul cancello principale d’ingresso la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”, appare come un duro monito per gli internati del lager. Inizialmente vennero imprigionati gli oppositori politici del regime nazista ai quali seguirono i cosiddetti antisociali, gli ebrei, i testimoni di Geova, gli omosessuali, i politici. A Buchenwald era stato assegnato un ruolo tutt’altro che secondario nel progetto di sterminio di massa organizzato dal regime nazista: era lì che si svolgeva la selezione dei prigionieri che sarebbero stati inviati nei vari campi di sterminio.

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All’interno del lager vennero commesse indicibili violenze: le uccisioni in massa dei prigionieri, le morti degli internati prostrati dai lavori forzati, le vite stroncate dalle malattie e dalla mancanza di cibo, i folli esperimenti dei medici, gli abusi delle SS.

La “iena” che scorticava i prigionieri

Tra i delitti più efferati si ricordano quelli di Ilse Koch, la moglie del comandante del campo, ribattezzata la “strega” o la “iena” di Buchenwald. In pieno delirio feticista fece scorticare la pelle dei prigionieri che avevano tatuaggi e dopo averla fatta conciare la utilizzò per farne copertine di libri e paralumi. Ilse Koch fu condannata a vita da un Tribunale tedesco e si tolse la vita nel 1967. Quando gli alleati liberarono Buchenwald l’11 aprile 1945, dopo la fuga precipitosa dei nazisti, il campo era già controllato degli stessi deportati e un comitato clandestino internazionale ne gestiva democraticamente la vita. I soldati dell’89ª Divisione di Fanteria della Terza Armata statunitense, infatti, nel varcare i cancelli si trovarono di fronte ad oltre 20 mila internati, tra i quali circa quattromila erano ebrei. Il fatto che il campo fosse stato liberato dagli stessi deportati consentì di salvare dalla distruzione buona parte della documentazione cosa che accadde in gran parte delle realtà del sistema concentrazionario hitleriano. E con il materiale conservato a Buchenwald, i giudici delle nazioni vincitrici istruirono il processo di Norimberga. Finita la guerra e divisa la Germania tra Ovest ed Est, Buchenwald si trovò nella DDR e fu utilizzato tra il ‘45 e il ‘50 dal governo sovietico che ne affidò l’amministrazione alla polizia segreta dell’NKVD, trasformandolo in “campo speciale” per oppositori dello stalinismo ed ex-nazisti. La maggior parte del campo venne poi demolita, lasciando intatti solo il cancello principale, l’ospedale interno, due torri di guardia e il forno crematorio.

Dopo una breve visita a Weimar, il cui nome è associato all’omonima “Repubblica”, nome dato al governo della Germania nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti nel 1933, si raggiunge Dora Mittelbau, lager nazista presso Nordhausen, sempre in Turingia, a sud dell’Harz, la più settentrionale delle catene montuose tedesche, dove si racconta riposi, in una grotta, Federico Barbarossa. Il nome femminile non deve trarre in inganno: in realtà si trattava delle iniziali della Deutsche Organisation Reichs Arbeit, l’organizzazione del lavoro tedesca. La sua costruzione, nell’estate del ‘43, fu decisa personalmente da Hitler allo scopo di produrvi le “Wunderwaffen” naziste, le armi segrete del Terzo Reich, dopo la distruzione della base di Peenemünde, nella parte più orientale della costa tedesca sul mar Baltico, bombardata tra il 17 e il 18 agosto del ‘43 dagli aerei britannici della Raf (Royal Air Force). Secondo alcune testimonianze le ricerche nelle gallerie di Dora dovevano rappresentare l’estremo tentativo di cambiare le sorti della guerra, grazie alle sperimentazioni e allo sviluppo dei programmi missilistici delle micidiali V1 e V2.

Una descrizione precisa del campo venne fornita da Charles Sadron, deportato a Dora dal febbraio del 1944 all’aprile dell’anno successivo, che scrisse: “Il campo è concentrato sul fondo di un vallone incupito dalla foresta di faggi, di betulle e di larici, che copre i suoi versanti. Uno dei quali, a Nord, costituisce il fianco della collina sotto la quale sorge l’officina. […] Due grandi tunnel, designati dalle lettere A e B, paralleli all’apparenza, di circa 3 km di lunghezza e orientati da Nord verso Sud, traforano la collina da parte a parte. Questi due tunnel principali sono collegati fra loro da una quarantina di gallerie…”.

Una produzione di seimila V2

Da quei lunghi tunnel, collegati con un sistema di numerose gallerie minori, uscirono quasi seimila V2. Si trattava di un lavoro massacrante per le migliaia di deportati, costretti a vivere in condizioni disumane nelle caverne, senza vedere la luce per mesi. Tra la fine dell’agosto del ’43 e l’aprile del ’45, nei venti mesi della sua esistenza, transitarono da Dora 60mila deportati, dei quali circa 20mila persero la vita. Tra di essi vi furono 1.500 italiani, deportati politici e anche militari trasferiti lì in spregio ad ogni convenzione internazionale sui prigionieri di guerra. Quasi un terzo di loro vi trovò la morte. Tra questi anche i sette alpini fucilati a metà dicembre del ‘44 per aver contestato le condizioni disumane alle quali erano costretti dai loro carcerieri. Alla metà di aprile del 1945 le forze armate americane liberarono il campo, all’interno del quale lavorarono anche importanti scienziati nazisti. Dopo la guerra, fatte saltare le gallerie e trasferiti negli Usa e nell’Urss centinaia di scienziati, su Dora cadde il silenzio. Nelle mani degli americani si consegnò la mente scientifica del progetto, l’ingegner Wernher von Braun, giovane genio della missilistica e maggiore delle SS. Von Braun passò con i suoi piani di costruzione delle V2 e con tutti i suoi ingegneri al servizio degli Usa, con la garanzia dell’asilo e della cancellazione dei crimini di guerra. Mittelbau Dora venne dimenticato anche nel processo di Norimberga: fu l’unico lager a non essere nemmeno citato.

La storia dell’alpino Albino Moret

Un oblio che durò fino alla caduta del muro di Berlino e alla riunificazione tedesca. Attualmente le gallerie sono in parte visitabili e accanto è sorto un memoriale. Il lungo silenzio pesa comunque come un macigno. Molte testimonianze sostengono che sia stata la conseguenza dell’invenzione delle V2, antesignano dei missili balistici (nel 1969 l’uomo arrivò sulla Luna spinto dal razzo Saturno 5, progettato sotto la direzione di Von Braun: nei fatti, l’evoluzione della V2) . La tecnologia nazista, molto avanzata per l’epoca, favorì in modo determinante la conquista dello spazio da parte di americani e russi, ed entrambi non avevano nessun interesse a ricordare ciò che aveva tragicamente preceduto le loro imprese. In quell’inferno sotterraneo, nel freddo umido di quelle gallerie fiocamente illuminate, tra i rottami dei razzi, si percepisce ancora l’enormità del dolore e della sofferenza di chi non vide la luce nel più duro campo di lavoro forzato del regime della svastica. È questa la memoria che resta e che non può essere dimenticata. A testimoniarla, per molto tempo, fu Albino Moret (nella foto, in visita a Mittelbau-Dora con una delegazione del Comitato Resistenza e Costituzione della Regione Piemonte nel settembre del 1996). Trevigiano d’origine, si era trasferito giovanissimo con la famiglia a San Mauro Torinese. Alpino nella Divisione Taurinense, all’armistizio si trovava sul fronte jugoslavo. Scelse subito di combattere i tedeschi, fu catturato e rifiutò di arruolarsi nella Repubblica di Salò. Per questo fu deportato a Dora. Moret venne liberato nel maggio ’45 a Ellrich, un sottocampo del lager di Buchenwald. Non dimenticò mai quell’orrore di cui non parlò per anni neppure con i suoi famigliari più stretti. Successivamente, fino all’ultimo dei suoi giorni testimoniò ai giovani e nei viaggi della memoria la tragedia dei campi di sterminio, insegnando a tanti l’importanza di non dimenticare. Perché, come ammoniva Primo Levi, occorre meditare “che questo è stato”.


Il racconto della sua prigionia in “Quei mesi d’inverno nel lager dimenticato” di Michele Ruggiero, l’Unità 8 settembre 1996, a: https://archivio.unita.news/assets/main/1996/09/08/page_013.pdf

Fonte: https://www.laportadivetro.org/il-giorno-della-memoria-da-buchenwald-a-mittelbau-dora/


Marco Travaglini