Il rigore sbagliato da Faruk, storia di calcio e di guerra

Era la sera del 30 giugno 1990 e a Firenze faceva un gran caldo.
L'orologio indicava le 19,30 e allo stadio Comunale ( quello che oggi
porta il nome di Artemio Franchi) era impossibile trovare nell'aria
ferma e umida un benché piccolo accenno di refrigerio. Ai calci di
rigore si stavano decidendo i quarti di finale dei mondiali di calcio
tra l'Argentina di Maradona e la Jugoslavia dei tanti talenti
balcanici.
Dopo centoventi minuti di calcio a decidere il risultato sarebbe stato
il calcio di rigore di Faruk Hadžibegić, un difensore in maglia blu,
il numero cinque della nazionale della Repubblica Socialista Federale
di Jugoslavia. Lo stesso giocatore che, due anni dopo, indossò per ultimo
la fascia di capitano della nazionale del suo paese prima che "la terra
degli slavi del sud" si dissolvesse nella tempesta della guerra. Faruk
tirò la palla all'angolo ma si fece parare il tiro da Sergio Goycochea,
il portiere della selecciòn di Buenos Aires. La Jugoslavia era
eliminata. L'illusione era finita .Quel rigore fallito, in un certo
senso, divenne il simbolo del destino di una nazione condannata a
sgretolarsi in una guerra feroce come solo le guerre tra fratelli sanno
essere. Quasi che un penalty potesse diventare il detonatore
dell'implosione di un intero paese, pronto a imboccare il tragico
destino che sarebbe seguito di lì a poco. Raccontando questa storia nel
suo "L'ultimo rigore di Faruk" (Sellerio), il giornalista Luigi
("Gigi") Riva coglie la complessità di un evento che sembrava soltanto
sportivo e con un'attenzione da storico e una spiccata sensibilità da
narratore porta il lettore "dentro" la storia di questo tiro fatale. La
leggenda popolare vuole che una eventuale vittoria nella competizione
avrebbe contribuito al "ritorno di fiamma" di un forte sentimento
nazionale per gli jugoslavi, scongiurando il crollo che si sarebbe
prodotto con la dissoluzione del paese orfano di Tito. Una sorta di
Bratstvo i jedinstvo, Fratellanza e Unità, in chiave calcistica.
Quella parola d'ordine indicava meglio di altre il sentimento che univa
i popoli della Jugoslavia, sottolineandone lo spirito laico,
interetnico e tollerante sulla base del quale era stato rifondato il paese dopo la
vittoria antinazista del '45. Una vicenda emblematica del rapporto
perverso tra sport e politica. Proprio per la sua popolarità il calcio
è sempre servito al potere come strumento di propaganda, dal fascismo
che utilizzò i trionfi del 1934 e 1938 ai generali argentini che
sfruttarono il Mondiale in casa del 1978 per far dimenticare orrori e
violenze della dittatura di Videla. Stessa cosa per l'Isis che decise
di colpire lo Stade de France a Saint-Denis, nella banlieue parigina,
durante una partita amichevole di calcio fra Francia e Germania, allo
scopo di amplificare il suo messaggio di terrore. Ma, come si legge nel
libro dell'editorialista del Corriere di Bergamo e firma storica de
L'Espresso, in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra
politica e sport è stato così violento e malato. Attraverso la vita
del protagonista e dei suoi compagni (molti dei quali diventati poi
famosi in Italia, da Boban a Mihajlović, Savićević, Bokšić, Jozić,
Katanec),si scopre il travaglio di quella rappresentativa nazionale e
del suo allenatore Ivica Osim, detto il Professore e anche l'Orso.
Nelle loro gesta s'intravede, come un immagine riflessa da uno
specchio, la disgregazione della Jugoslavia e la volgare spregiudicatezza dei
suoi leader politici che vollero utilizzare lo sport e i suoi protagonisti
per costruire il consenso attorno alle idee separatiste e nazionaliste.
E' in questa chiave di lettura che il calcio può essere definito come
il prologo del conflitto che insanguinò i Balcani occidentali nella
prima metà degli anni '90 del secolo breve. Come se su quei rettangoli
d'erba verde ci si predisponesse alla prova generale delle future
battaglie. Non a caso si attribuisce agli scontri tra i tifosi della
Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado il primato di aver
messo in scena, proprio in uno stadio, il primo vero episodio del
conflitto. Era il 13 maggio del 1990 e, paradossalmente, il nome dello
stadio della capitale croata era ( e lo è tutt'ora) "Maksimir", con un
evidente sottolineatura della parola "mir", cioè "pace". E' ormai
noto come proprio nelle curve degli ultrà vennero reclutati quei
miliziani diventati in seguito tristemente famosi per la ferocia della
pulizia etnica a Vukovar come a Sarajevo, iniziando da quel Željko
Ražnatović, meglio conosciuto come "Arkan",leader degli ultrà della
Stella Rossa e poi capo sanguinario delle milizie paramilitari serbe
delle Tigri di Arkan. Per il loro valore emblematico le vicende
narrate ne L'ultimo rigore di Faruk, pur risalendo a trent'anni fa,
sono ancora terribilmente attuali e il libro le propone con intensità e
passione. Faruk Hadžibegić oggi ha sessantaquattro anni e ha vissuto a
lungo in Francia. Ha conservato il fisico asciutto dell'atleta e fa
l'allenatore di calcio (attualmente della nazionale del Montenegro).
Quella parata nell'angolino da parte di Goycochea l'ha certamente
rivista e pensata mille e mille volte nel corso di tre decenni. Quando
ne scaccia via il ricordo, ci sono gli altri a ricordargliela. Come
quando, tornando nei paesi che un tempo formavano la Jugoslavia, al
controllo passaporti, porgendo il documento alle guardie di frontiera
di cui ben conosce l'idioma ( si possono cambiare i confini, non la
lingua) si è sentito dire "Faruk Hadžibegić..Ah, se lei avesse segnato quel
rigore! Forse cambiavano i destini del Paese..". Alle frontiere ci sono
i dazi e questo è il suo dazio. Ci è abituato ormai, l'ex capitano dei
"Plavi": "otto volte su dieci, quando incontro ex jugoslavi è così
che mi dicono..". La memoria di quel rigore è andata oltre, si è fatta
leggenda. Faruk a volte s'interroga su cosa sarebbe successo se
avessero sconfitto l'Argentina e poi, magari, giocato la semifinale e la finale.
Forse non ci sarebbe stata la guerra, se avessero vinto la coppa del
Mondo? Non c'è risposta, ovviamente. Resta solo il rimpianto
dell'errore. E Gigi Riva, in chiusura, commenta: "Più passa il tempo
più la benevolenza prevale sul rimprovero. L'eroe soccombente è
comunque eroe. Ettore non è meno valoroso di Achille, nel suo lato
fragile anche più simpatico. Non poteva essere diversamente nella terra
dove si celebrano le gloriose sconfitte: la consolazione dei perdenti".


Marco Travaglini