Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani

Appena varcata di pochi chilometri la frontiera tra Bosnia e Croazia, ecco Jasenovac. Siamo nella contea croata di Sisak e della Moslavina, dove il corso d’acqua della Una confluisce nella Sava. Quando si pensa ai campi di concentramento tornano alla memoria i lager in Germania, Austria, Polonia o in Repubblica Ceca. Ma c’è anche “l’Auschwitz dei Balcani”, questo terribile campo di Jasenovac, creato dagli ùstascia di Ante Pavelic, con la collaborazione dei nazisti e dei fascisti italiani. Il campo di concentramento si trova ad un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria e venne costruito tra l’agosto del 1941 e la primavera del 1942 proprio sulle rive della Sava, che segnano il confine naturale tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. All’entrata una scritta incombeva su chi vi era internato: “Red, Rad, Stega”, cioè “Ordine, Lavoro, Disciplina”. In seguito all’alleanza dei nazionalisti di estrema destra croati con le potenze dell’Asse e con la conseguente adozione da parte di Zagabria dell’ideologia razzista, il campo di Jasenovac doveva essere destinato, secondo i piani del Terzo Reich, principalmente alla detenzione e all’eliminazione di ebrei, oppositori politici e zingari. Gli ùstascia, invece, aggiunsero un elemento in più, considerandolo il luogo adatto in cui internare e distruggere la popolazione serba. Così il maggior numero di vittime del campo furono per lo più serbi (oltre la metà degli internati), oltre agli ebrei, zingari (quasi sempre uccisi non appena mettevano piede a Jasenovac), bosgnacchi (bosniaci musulmani), dissidenti croati e in generale membri della resistenza, compresi i partigiani e i loro simpatizzanti, etichettati indistintamente dalle belve di Pavelic come “comunisti”. Le condizioni di vita erano simili a quelle degli altri campi di concentramento sparsi per l’Europa: cibo scarso, alloggi con pessime condizioni igieniche, undici, dodici ore di duro lavoro, uccisioni e torture. Nei primi tempi molti detenuti furono costretti a dormire all’aperto perché non erano ancora state completate le baracche. Per la mancanza d’acqua, in tantissimi bevvero l’acqua della Sava e frequenti erano le epidemie di tifo, malaria, dissenteria e difterite. Le guardie permettevano ai prigionieri di lavare i loro pochi indumenti una volta al mese nel fiume. Solo chi aveva particolari abilità professionali, come medici, farmacisti, orefici e calzolai, poteva godere di un trattamento un po’ più umano. A tutti gli altri toccava subire le angherie degli ùstascia. Nell’agosto del ’42 nacque una scommessa tra le guardie su chi avrebbe massacrato il maggior numero dei prigionieri, che venivano uccisi con coltelli, mazze e spranghe, per risparmiare sui proiettili. A Jasenovac vennero utilizzati ,per un breve tempo, i forni della fabbrica di mattoni come crematori e lì trovarono la morte donne e soprattutto bambini (almeno 20mila tra zingari, serbi ed ebrei). L’inferno finì nella primavera del 1945. Il 22 aprile circa seicento prigionieri si ribellarono, ma le guardie ne uccisero la stragrande maggioranza e solo in ottanta riuscirono a fuggire. Prima di abbandonare definitivamente il campo, gli ùstascia uccisero i restanti detenuti e diedero fuoco agli edifici, alle fornaci, alle camere di tortura e a tutto ciò che potesse testimoniare le atrocità commesse. Oggi, quello che rimane è un memoriale in ricordo delle vittime e un enorme dibattito nato tra i serbi e i croati sul numero dei morti: laddove i primi parlano di circa mezzo milione, mentre i secondi cercano di impostare le cifre al ribasso. Secondo le fonti più accreditate, a Jasenovac persero la vita circa 100mila persone, di cui 50mila serbi, 20mila zingari (questo però è il dato più controverso e di difficile verificabilità), circa 20mila ebrei e 10mila croati e bosgnacchi. E anche, leggendo l’elenco, diciotto italiani dei quali una donna. Fuori dal mausoleo, nell’aperta campagna che ospitò le baracche e le strutture del campo, sorge il “Fiore di Jasenovac”, il monumento-simbolo progettato dall’architetto e artista serbo Bogdan Bogdanovic. Tutt’attorno, nel terreno reso paludoso dalla pioggia e dalle frequenti esondazioni della Sava, s’intravedono i tumuli che fanno parte dell’assetto paesaggistico del memoriale. Piccole alture erbose che si ergono dove c’erano le baracche e dove i detenuti conobbero atrocità, sofferenze ed esecuzioni. Il tutto in un paesaggio silenzioso, in un luogo — come Bogdanovic stesso volle indicare — “angoscioso, profanato dal crimine”.



Marco Travaglini