L’antidoto democratico della memoria

Il giorno della Memoria ci ricorda che 77 anni fa si aprirono i cancelli di Auschwitz-Birkenau, rivelando l'orrore del genocidio nazista. Quel campo di concentramento e sterminio in Polonia è diventato un simbolo che ci ricorda e insegna ogni giorno di quali orrendi crimini può essere capace il genere umano quando applica i principi di discriminazione con fanatismo, odio razziale e violenza. Le persecuzioni naziste avevano come obiettivo un progetto di società basato su di un nazionalismo esasperato che si basava sul progetto di un nuovo ordine  dove non trovavano posto la diversità, il dialogo, l’accettazione dell’altro, immaginando una società di puri ariani senza ebrei, dissidenti politici, omosessuali, disabili mentali, testimoni di Geova, zingari come i Rom e i Sinti, le popolazioni slave. Il processo che aveva portato allo sterminio degli ebrei in Europa e alla nascita del sistema concentrazionario nazista era iniziato molto tempo prima con le campagne di stampa, gli episodi e i comportamenti discriminatori e razzisti, legalizzati da diverse disposizioni normative che resero la popolazione ebraica facile preda del nazifascismo che fondava i suoi principi su discriminazione, insofferenza e intolleranza. “Il mondo non vi crederà mai”, dicevano i carnefici di Hitler ai prigionieri dei campi di sterminio. Alcune vittime, sopravvissute a quell’esperienza, sentirono la necessità e trovarono la forza di portare la testimonianza di quanto accaduto. Tra questi ci fu Primo Levi. Nel capitolo conclusivo de I Sommersi e i Salvati  scrisse che la testimonianza era percepita “come un dovere, e insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, non previsto da nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa […] è avvenuto, quindi può accadere di nuovo, questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. Il 5 Giugno 2018 la senatrice a vita Liliana Segre intervenendo a Palazzo Madama disse: "Si dovrebbe dare idealmente la parola a quei tanti che, a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento. Salvarli dall'oblio non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell'indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri". L’indifferenza, quella che Gramsci considerava “il peso morto della storia”, è il grande problema. Ieri come oggi. E il negazionismo, allora come adesso, è un virus pericolosissimo e presente. Per fare davvero i conti con la Shoah non può bastare lo sguardo rivolto al passato. Non basta perché il virus della discriminazione, dell’odio e della sopraffazione, del razzismo continua a diffondersi, non è confinato in una dimensione storica ma riguarda in maniera concreta i comportamenti di molte persone oggi come nel caso della negazione della pandemia da Covid 19, dei problemi climatici, delle sofferenze e dei diritti dei popoli migranti. Come ricordò il compianto David Sassoli al Parlamento Europeo, “per impedire negazionismi e amnesie bisogna sentire tutti l'impegno per una lucida e vigile coscienza storica, capace non solo di rendere testimonianza, ma anche di capire, prevenire e intervenire ogni qualvolta si diffondono i semi del male assoluto”. E’ il dovere civile delle memoria, l’intransigente disciplina repubblicana che deve ispirare le azioni delle istituzioni democratiche, delle realtà che si occupano di storia e memoria, di associazioni come l’Anpi. Nella prefazione del 1947 a Se questo è un uomo, Primo Levi scriveva: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”. Le parole di Primo Levi appaiono quanto mai significative e attuali di fronte alle situazioni che si riscontrano oggi in Europa e fanno temere che la memoria del periodo nazifascista e la conoscenza della storia non rappresentino ancora un vaccino efficace contro questa infezione latente.


Marco Travaglini