Oltre i confini in cerca di futuro

“Confine diceva il cartello/ cercai la dogana, non c’era/non vidi dietro il cancello/ombra di terra straniera”. Il poeta Giorgio Caproni individuava in questo dubbio confine, segnato forse nel posto sbagliato, l’unico rifugio possibile, il limite che separa la realtà dall’immaginazione e dalla speranza. Un limite che, al contrario della frontiera, è valicabile, consente di andare oltre. A volte verso la salvezza. Così, un tempo, accadde per le grandi migrazioni italiane verso le Americhe in cerca di fortuna, fuggendo da miserie e povertà. O verso altri paesi europei, nel secondo dopoguerra. Durante la Resistenza si cercava la salvezza rifugiandosi oltre confine o sulle montagne che da sempre sono state il rifugio naturale di ribelli, eretici e resistenti. Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale il sogno dell'Europa unita portava ad immaginare di aprire le frontiere alle merci e alle persone, contaminando ancora di più le culture ma da troppo tempo a questa parte c'è chi intende richiudere gli spazi nazionali dentro recinti e muri per impedire il passaggio di chi ha bisogno e viene da molto lontano. Una dura realtà che si scontra con la speranza di ci si mette in movimento e richiede asilo. I profughi che attraversano il Mediterraneo, trasformatosi in un grande cimitero, che si incamminano sulla rotta balcanica e affollano alle recinzioni di Melilla sulla costa orientale del Marocco oppure cercano di passare i confini tra Italia e Francia sui sentieri di montagna sono donne, bambini, uomini disperati. Persone dalle vite senza sponda, migranti che cercano rifugio in Europa, in fuga da bombardamenti e carestie, da cambi di regime, guerre e povertà, violenze tribali. La maggior parte di loro viene da Siria, Marocco, Algeria, Afganistan, Iran e Pakistan. A bloccarli in veri e propri lager a cielo aperto dove sono costretti sono stati i muri, i fili spinati, le ostilità e i rigurgiti di razzismo che hanno solo reso il loro viaggio più arduo, pericoloso, mortale, spesso impossibile. E le stragi annunciate si moltiplicano. Negli ultimi anni il numero dei morti è aumentato. Centinaia di donne, uomini e bambini muoiono affogati nel tentativo di fuggire da conflitti, violenza, malattie, sete e fame. È incredibile ritrovarsi a morire in mare per sfuggire alla siccità che affligge intere regioni dell’Africa. Siamo di fronte ad una vera e propria bancarotta dell’umanità, al prodotto di quel virus che nasce dalla somma tra il sovranismo e l’indifferenza egoistica. Sembra di rivedere, come fotogrammi di un passato che ritorna, ciò che accadde trent’anni fa nei Balcani durante le guerre della prima metà degli anni ’90, quando si consumava l’orrore sotto gli sguardi distratti, lontani, indifferenti e bui dell’Occidente. Eppure non dovrebbe essere consentito voltare la testa da un’altra parte o indietreggiare sul tema decisivo del valore di ogni essere umano. Non dovrebbe essere accettabile che si continui ad alzare fili spinati e muri per impedire le “vie di salvezza”. Occorrono ponti, non muri. Lo dicono in tanti e lo dice il Pontefice che porta questo nome (l’etimologia stessa della parola pontifex – pontem facere – significa “costruttore di ponti” ). I ponti sono slanciati, leggeri, ci vengono incontro con un balzo dai due lati. I muri sono pesanti, tirano verso il basso. I ponti invitano a passare e a incontrarsi. I muri serrano e segregano. Inframuraria, si chiama nel gergo tecnico l’esistenza nelle galere. E noi crediamo occorra aiutare chi varca i confini in cerca di futuro.


Marco Travaglini