Storia di una pace sempre in bilico: Trent'anni fa il calvario dei Balcani

È stato in parte oscurato dall'attualità, dai venti di guerra che
spirano in Ucraina e dalla tensione tra Occidente e Russia, il
trentennale dell'intervento delle Nazioni Unite nei Balcani. Doveva
essere un intervento umanitario, di raffreddamento delle ostilità
derivate dalla disintegrazione della Jugoslavia. Al contrario, i caschi
blu si ritrovarono nel mezzo di una sanguinosa e crudele guerra.
Il 22 febbraio del 1992, trent'anni fa, il Consiglio di Sicurezza
dell'Onu, con la risoluzione 743, istituiva una forza di 14 mila caschi
blu provenienti da 31 Paesi, denominata United Nations Protection Force
(Unprofor), con quartier generale Sarajevo e funzione di controllo 
delle zone demilitarizzate delle regioni serbe della Croazia: Krajina,
Slavonia orientale e occidentale. Le condizioni di base per l'invio e
l'operatività del contingente, come ha ricordato in questi giorni lo
scrittore e giornalista Luca Leone, uno dei più attenti conoscitori
delle vicende balcaniche, "erano tre: il consenso delle parti;
l'instaurazione di una tregua; l'uso delle armi limitato
all'auto-difesa". I soldati Onu andarono nei Balcani per proteggere i
convogli umanitari e presidiare le aree contese tra le parti in
conflitto. L'obiettivo doveva sostanziarsi nel creare le condizioni di
pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione complessiva
della crisi jugoslava. Ma nel mezzo della terra degli slavi del sud,
dove s'incontrano l'Oriente e l'Occidente, le cose andarono
diversamente, anche per l'indolenza, l'incertezza e persino la
complicità di chi pensava fossero solo delle beghe locali e occorresse
lavarsene le mani. Tutto precipitò in un'escalation che portò alla
guerra con tutto il suo carico di orrori e tragedie. Fu la prima guerra
in Europa dal 1945 e l'assedio di Sarajevo fu il più lungo della storia
moderna: dal 5 aprile del 1992 al 29 febbraio del 1996. Quando tacquero
le armi, venne la "terribile pace", quella degli accordi di Dayton.
Trent'anni dopo si allungano ancora le ombre della guerra in Europa con
la crisi tra Russia e Ucraina. Anche nel cuore dei Balcani le tensioni
non sembrano mai sopite a causa della lunga e terribile scia di 
problemi che il conflitto si è trascinato dietro. Una guerra che rappresentò
l'evento più cruento del lungo processo disgregativo che pose fine alla
Jugoslavia. Trent'anni fa tornavano nel cuore dell'Europa, a poche
centinaia di chilometri da casa nostra, i campi di concentramento, gli
assedi alle città, il genocidio e i profughi. Sono passati sei lustri
dagli anni più bui della "decade malefica" delle guerre che hanno
insanguinato quella parte d'Europa a est del mar Adriatico. La
situazione si è solo complicata e i fili spezzati dalla guerra alla
metà degli anni Novanta si sono solo riannodati malamente, senza
risolvere i problemi di fondo. Anzi, ora la crisi è più dura, i
rancori crescono e quel fuoco che non si è mai spento continua a covare
sotto la cenere. Nella Repubblica Srpska, dopo aver più volte negato il
genocidio avvenuto a Srebrenica, continua ad agitarsi lo spettro del
separatismo e l'idea del ricongiungimento con la Serbia. Il 
negazionismo presenta il suo volto più scuro, qualificandosi come prassi e punta
più avanzata di quel nazionalismo estremo che ha prodotto violenze,
drammi e lutti. La crisi si è mangiata le vite di molti e ipoteca il
futuro, soprattutto dei giovani. Persino la grande ondata di profughi
sulla rotta balcanica passa da lì. Sono donne, bambini, uomini dalle
"vite senza sponda", quelle dei migranti che cercano rifugio in Europa,
in fuga da bombardamenti e carestie, da cambi di regime, guerre e
povertà, violenze tribali. La maggior parte di loro viene da Siria,
Marocco, Algeria, Afganistan, Iran e Pakistan. A bloccarli in veri e
propri lager a cielo aperto dove sono costretti sono stati i muri, i
fili spinati, le ostilità e i rigurgiti di razzismo che hanno solo reso
il loro viaggio più arduo, pericoloso, spesso impossibile. Lo si è
detto più volte, ma vale la pena ripeterlo: le guerre nell'ex
Jugoslavia non parlavano del loro passato nei Balcani, ma del futuro di
noi tutti in Europa. Abdulah Sidran, drammaturgo e poeta sarajevese, in
un'intervista rilasciata a Trieste nel gennaio del 1996, alla domanda
"Che cosa succederà oggi in Bosnia?", rispondeva: "Adesso a Sarajevo
abbiamo la pace. Non abbiamo ancora la libertà, ma proveremo a
conquistarla. Per la giustizia invece non nutro molte speranze. Da 
parte mia mi sforzerò d'essere leale. L'impegno è quello di lavorare per
l'estensione della democrazia. Per fortuna anche in questi anni abbiamo
salvato il nostro spirito di tolleranza". A chi gli chiedeva dell'odio,
affermava che "l'odio è un prodotto della politica, non appartiene alla
gente comune. Neppure per un istante ho pensato che non avrei
abbracciato il mio amico serbo che vive qui a Trieste". Tre anni prima,
nel luglio del 1993, in una Sarajevo stretta nella morsa dell'assedio,
mandò a tutti un messaggio accorato: "Noi siamo Europa più di Madrid,
Parigi e Londra. Qui c'è la culla della civiltà europea. Qui c'è Roma
e la Grecia". E aggiungeva: "Tenetevi forte, resistete, noi siamo con
voi perché il fatto che l'Europa guardi e taccia è un crimine
mostruoso nei confronti del nostro popolo, ma è anche un crac morale
dell'Europa. Niente di buono può aspettarsi una simile Europa. Una
simile Europa non ha destino futuro. E per quanto riguarda la morale e
la democrazia noi non abbiamo da imparare nulla. L'Europa può venire
qui a imparare qualcosa. Noi in qualche modo sopravviveremo. Cosa sarà
invece dell'Europa, Dio solo lo sa!". Una critica amara e severa,
formulata da chi pensava al suo Paese come a un ponte fondamentale per
l'intera Europa, capace di unire Occidente a Oriente. La critica di un
uomo che si sentiva cittadino europeo malgrado l'Europa e che 
immaginava l'Europa come lo scrittore Ivo Andrić e il mostarino Predrag
Matvejević, uno dei più lucidi e acuti intellettuali: "Con Roma e con
Bisanzio, senza perdere di vista neppure l'Islam". Erano consapevoli 
che il nazionalismo spinto oltre ogni limite produce solo danni
irreparabili, conflitti, tragedie. Oggi, trent'anni dopo, c'è questa
consapevolezza a ovest e a est di Sarajevo? In questi anni è scivolato
via anche il centenario della Prima guerra mondiale che ebbe il suo
tragico incipit proprio nella capitale di una terra dove le moschee
convivono con i boschi di latifoglie e di conifere e i palazzi barocchi
e liberty si perdono negli antichi mercati ottomani o alle soglie degli
hammam; dove il canto del muezzin e il suono delle campane delle chiese
ancora oggi, e nonostante tutto, trovano faticosamente il modo di
convivere. Guardando con occhi critici al Novecento non si può evitare
di considerare come il secolo scorso iniziò con l'attentato di Sarajevo
del 28 giugno 1914 e terminò con le guerre balcaniche degli anni '90.
Come per tutti i conflitti, al netto dei fiumi di parole, restano i
cimiteri, le tombe, i drammi umani, i contorni della tragedia. Solo che
in Bosnia quella memoria è del tutto contemporanea e non cancella il
ricordo di uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri,
detenzione illegale e sterminio. Matvejević scrisse parole amare e
sagge: "I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel
ricordo, come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato
vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato
immerso in essi non può cancellarli dalla memoria". Soprattutto in un
Paese che vive tempi difficili, stretto tra crisi economica, corruzione
politica e incertezze istituzionali figlie del trattato di Dayton. La
storia recente della Bosnia è segnata dal fallimento dell'Occidente e
dell'Europa. I tentativi più o meno goffi di rimozione nascono anche
dalla fatica di ammettere le responsabilità e l'indifferenza di allora
nei confronti di un massacro costruito in laboratorio e sdoganato
all'opinione pubblica come conflitto di civiltà, scontro tribale o
generica barbarie. Ripetere quell'errore oggi e voltare la testa per 
non vedere sarebbe ben più che diabolico.


Marco Travaglini