Trieste, Redipuglia, Arbe: gli intrecci della storia sul confine orientale italiano
“Mediterranea e insieme nordica, i colori smorzati come sul Baltico ma d’improvviso sfavillanti più che nel sud; scogliosa, ventosa, selvatica”. Trieste, sul finire degli anni ’50, venne così descritta da Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia. Città con un passato tormentato e battuto dai venti della storia, fin dall’antichità ha sempre rappresentato un importante e strategico porto ( oggi il più grande d’Italia mentre ai tempi dell’ Impero austro-ungarico fu il principale sbocco marittimo degli Asburgo). Trieste, città irredenta e contesa, “pensosa e schiva” per Umberto Saba, ha saputo nel corso dei secoli mescolare con fascino ed eleganza i caratteri mediterranei con quelli mitteleuropei. Per l’Italia si tratta del confine orientale, più volte immaginato e vissuto come un confine “mobile”, sottolineando la complessa dinamica di conflitti e contese nazionali che, a partire dall’Impero austro-ungarico e attraverso la Grande guerra, si intrecciano poi con il fascismo, il nazismo e il comunismo jugoslavo.
La notte dei cristalli di Trieste
“Sulla via Commerciale non era scesa la sera, l’incendio sopra i tetti sembrava venire dal sole che liquefacendosi sanguinava nel crepuscolo. Il tram per Opčine si era fermato, gli alberi nel giardino dei Ralli apparivano immobili nell’aria color porpora. Loro due correvano tenendosi per mano e nell’aria, sopra le loro teste, volavano le scintille che salivano da piazza Oberdan. […] Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: “Viva! Viva!” Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: “Eia, eia, eia!”. E gli altri allora di rimando: “Alalà!”. Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette”. Così, nel suo “Il rogo del porto”,lo scrittore Boris Pahor racconta la “notte dei cristalli” di Trieste quando, il 13 luglio 1920, dopo un comizio in piazza Unità d’Italia, estremisti fascisti e nazionalisti attaccarono una ventina di attività gestite da slavi (caffè, negozi, banche,imprese ), il consolato jugoslavo e, soprattutto, diedero fuoco al Narodni dom, la “casa nazionale” del popolo sloveno a Trieste. Ospitata nel palazzo di via Filzi, nei pressi della stazione e del tram di Opicina che congiunge il centro città all’altopiano carsico, venne divorata dalle fiamme che ridussero in cenere gli ambienti modernamente arredati, i libri, gli strumenti musicali, gli archivi, e con essi gran parte del patrimonio culturale degli sloveni triestini. Il rogo del Narodni dom e quelle violenze furono tra i primi segnali che anticiparono i venticinque anni di crescente oppressione e persecuzione nei confronti degli sloveni. Il Regno d’Italia e soprattutto il regime fascista li privarono del diritto all’uso della lingua madre e, con la chiusura delle scuole, i confinamenti e le deportazioni, misero a rischio la sopravvivenza stessa della comunità slovena a Trieste. Cent’anni dopo, il 13 luglio 2020, il Narodni Dom, è stato restituito ufficialmente alla comunità slovena della città che lo gestisce ora attraverso una fondazione.
La Risiera di San Sabba
A Trieste, tra il colle di Servola e quello di San Pantaleone, si trova la Risiera di San Sabba, unico esempio di lager nazista in Italia. Già all’entrata s’avverte, incombente e greve, il “peso” della vicenda consumatasi tra le mura del grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso, costruito nel 1898. Campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 , poi centro di smistamento dei deportati in Germania e in Polonia, in seguito luogo di eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici, ebrei. La Risiera dal 1965 è monumento nazionale e, dieci anni dopo,venne ristrutturata diventando Civico Museo. Nel primo stanzone posto alla sinistra prima di entrare nel cortile e dopo aver attraversato lo stretto e inquietante “budello” tra le mura di cemento alte undici metri, s’incontrano la “cella della morte” e le diciassette piccole celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri. Erano luoghi di detenzione riservati a partigiani, politici e ebrei destinati all’esecuzione. Le prime due venivano usate per la tortura o la raccolta di materiale prelevato ai prigionieri;vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo a detenuti e deportati ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto. Quasi tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia. Le porte e le pareti dei locali della Risiera erano ricoperte di graffiti e scritte. L’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez , conservati nel Civico Museo di guerra per la pace a lui intitolato, che ha sede al 22 di via Cumano, a Trieste. Nei diari è stata riportata l’accurata trascrizione delle scritte, offrendo una testimonianza drammatica di quanto accadde tra le mura della Risiera. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da Trieste venivano inviati a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi poterono evitare. Nel cortile interno, proprio di fronte all’area contrassegnata dalla piastra metallica (dove si pensava sorgesse l’edificio destinato alle eliminazioni) si trovava il forno crematorio. L’impianto era interrato. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. La struttura del forno crematorio venne distrutta con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra che oscilla tra le tre e le cinquemila persone che persero la vita tra quelle mura di mattoni rossi.
La linea di demarcazione del Litorale Adriatico
Dopo l’8 settembre del ’43 la Venezia Giulia cessò di fatto di far parte dello Stato italiano e, con la costituzione della zona di operazione dell’Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico), diventò un territorio direttamente amministrato dal Reich. Il Litorale Adriatico comprendeva le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana, sancendo l’annessione di fatto alla Germania di un’ampia area gravitante sull’Alto Adriatico e sul bacino della Sava. Prefetti e podestà operarono sotto il controllo tedesco e le milizie collaborazioniste locali (italiane, slovene e croate) furono poste al servizio degli occupanti. Passarono così alle dipendenze delle SS le formazioni della milizia fascista, che sul Litorale non si trasformarono nella Guardia Nazionale Repubblicana di Salò assumendo la denominazione di Milizia Difesa Territoriale e i vari reparti di polizia furono impiegati anche nelle operazioni di rastrellamento, repressione della guerra partigiana e controllo della classe operaia nelle grandi fabbriche. Il braccio operativo e repressivo di quell’apparato diventò la tristemente “banda Collotti” comandata dal commissario Gaetano Collotti che continuò il suo ”servizio” dopo l’8 settembre fornendo ai tedeschi piena collaborazione nella caccia agli antifascisti e nella cattura degli ebrei triestini. Il “Litorale” fu l’ultima conquista territoriale del regime nazista che voleva costruire una piattaforma economica e politica per il suo disegno espansionistico nell’area mediterranea.
Il campo di contemtramento fascista di Arbe
Arbe, la croata Rab, è una delle quattro grandi isole del golfo del Quarnaro a sud di Fiume, l’attuale Rijeka. Rab è oggi un luogo ameno che vive sul turismo ma durante la Seconda guerra mondiale - dopo l’annessione italiana di una parte della fascia della costa adriatica orientale – ospitò uno dei peggiori lager fascisti. Secondo alcune stime, nel campo di Arbe furono internate tra 10 e 15mila persone, perlopiù sloveni, croati ed ebrei. Tra il luglio 1942 e la fine di agosto del 1943 nella piana di Kampor l’esercito di occupazione italiano costruì questo campo di concentramento per civili nel quale trovarono la morte 1.435 persone. Questo è il numero delle vittime nominativamente accertate, ma vi sono valide ragioni per ritenere che le morti siano state molte di più. A Rab non vennero eseguite fucilazioni e non c’erano camere a gas ma si moriva di fame, deperimento fisico, dissenteria, maltrattamenti e malattie di ogni genere. La vita nelle tende, sia d’estate che d’inverno, quando la bora gelida non perdona, poveri giacigli di paglia sulla terra nuda, poca acqua, latrine rigurgitanti liquame in caso di pioggia: queste furono le cause principali di una così alta mortalità. In poco più di tredici mesi venne raggiunto questo tragico primato. Il campo di Rab non faceva parte del sistema concentrazionario nazista. Lì comandavano i militari dell’esercito italiano mandati da Mussolini a portare in terra slava “la civiltà fascista”. Nessuno venne chiamato a rispondere per questi crimini e nessuno pagò il conto alla giustizia. Una storia che in Italia è stata a lungo ignorata, disattesa, taciuta anche se i documenti riguardanti il campo di concentramento di Arbe/Rab sono pubblici e reperibili negli archivi dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano a Roma e si possono trovare in pubblicazioni di autorevoli storici e ricercatori italiani, sloveni e croati disponibili nelle biblioteche degli istituti storici e negli archivi pubblici.
Il pozzo di Basovizza e le foibe
Basovizza è una delle frazioni di Trieste. Si trova a nordest del capoluogo, sull’altopiano del Carso. E’ lì che si trova il monumento nazionale alle foibe. In realtà non si tratta di una foiba vera e propria ma di un pozzo minerario in disuso, scavato all’inizio del ventesimo secolo per intercettare una vena di carbone e presto abbandonato per la sua improduttività. Quel luogo, nel maggio 1945, fu teatro di esecuzioni di civili e militari italiani, arrestati dalle truppe jugoslave d’occupazione. In gran parte le vittime vennero gettate dentro le foibe,voragini naturali disseminate sull’altipiano del Carso triestino e in Istria. Il pozzo di Basovizza è diventato un luogo simbolo, al fianco del quale sorge un centro di documentazione. Nel 1992 il presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro lo dichiarò monumento nazionale a testimonianza e ricordo di tutte le vittime degli eccidi del 1943 e del 1945. Un dramma, quello delle foibe, che va inserito nel lungo periodo della storia giuliana che parte dal violento “fascismo di confine” e si snoda attraverso gli avvenimenti della guerra in Jugoslavia e nella Venezia Giulia, fino alla creazione del Territorio Libero di Trieste. Nel 1943 e dopo la fine della guerra, tra il maggio e il giugno 1945, migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia vennero uccisi dall’esercito jugoslavo del maresciallo Tito e molti di loro furono infoibati negli anfratti naturali disseminati sull’altipiano del Carso triestino e in Istria, trasformandoli in grandi fosse comuni. Le stragi colpirono gli oppositori all’annessione delle terre contese alla nuova Jugoslavia: collaborazionisti e militi fascisti, membri dei comitati di liberazione nazionale,partigiani combattenti,comunisti contrari alle cessioni territoriali e cittadini comuni. Il dramma della popolazione italiana nelle regioni orientali proseguì oltre la fine della guerra fino alla stipula del trattato di pace di Parigi, siglato il 10 febbraio 1947. La loro sorte venne decisa dalle potenze alleate che avevano vinto la guerra. Decisero l’annessione alla Jugoslavia di città come Fiume e Zara, di tutta l’Istria e delle isole della Dalmazia. Tutti i beni dei cittadini italiani di quelle regioni vennero confiscati. Quel trattato diede origine a un esodo forzato degli italiani da quelle regioni, abbandonando praticamente tutto ciò che avevano. Una tragedia per circa 300mila profughi che, a differenza dei migranti che partono alla ricerca di un futuro migliore e con la prospettiva di tornare, videro negata questa speranza. A decine di migliaia si dispersero in 109 campi profughi sparsi per l’Italia mentre altri emigrarono in mezzo mondo. L’Italia riprese il controllo amministrativo di Trieste soltanto il 26 ottobre 1954, quando la “città dei venti” cessò di essere territorio internazionale (amministrata dalla comunità internazionale e dalla Iugoslavia) e tornò a far parte dell’Italia. Il trattato di Osimo, siglato il 10 novembre 1975, sancì lo stato di fatto di separazione territoriale venutosi a creare nel Territorio Libero di Trieste a seguito del Memorandum di Londra (1954), rendendo definitive le frontiere fra l’Italia e l’allora Jugoslavia, oggi Slovenia.
Le memorie affastellate del Magazzino 18
Il Magazzino 18, al porto vecchio di Trieste, è un luogo simbolo dell’esodo dai territori dell’Istria, del Quarnero e della fascia costiera dalmata. In questo magazzino furono stoccate le masserizie dagli esuli, che abbandonarono le terre cedute nel 1947. Questo luogo diventò così un enorme contenitore di testimonianze di una quotidianità violata, composta da una miriade di oggetti suddivisi per tipologia, classificati con nomi e numeri a testimoniare la tragedia di un popolo sradicato dalla propria terra. Tavoli, cataste di sedie, armadi, specchiere, cassapanche, attrezzi da lavoro, ritratti, giochi, fotografie in bianco e nero, quaderni e libri di scuola, macchine da cucire. Oggetti dimenticati, coperti di polvere. Le storie di persone che scelsero di lasciare le terre dove erano nate e abbandonare i propri beni per avventurarsi verso un Italia ancora alle prese con il dopoguerra piuttosto che restare, sentendosi degli estranei, nella Jugoslavia di Tito. Storie di vite intrecciatesi sul crinale di quel confine orientale che, in diverse fasi della storia, vide consumarsi atroci violenze e soprusi. Dopo più di settant’anni queste povere cose, di scarsa importanza materiale ma di enorme valore sentimentale, raccontano le vicissitudini delle persone alle quali sono appartenute, alle vite sconvolte dagli eventi di una storia che li travolse in maniera dura e ingenerosa. La visita guidata e l’ingresso al Magazzino 18 sono gratuiti ma trattandosi di visite presso locali dell’Autorità Portuale triestina, non liberamente accessibili al pubblico, è necessario prenotarla preventivamente presso l’IRCI, l’Istituto Regionale per la cultura Istriano-fiumano-dalmata.
I centomila di Redipuglia
Un passo indietro nella storia riporta alla Grande Guerra e al Sacrario di Redipuglia che sorge, imponente, sul versante occidentale del Monte Sei Busi, aspramente conteso nel primo conflitto mondiale poiché, nonostante la scarsa elevazione, consentiva dalla sua sommità di dominare l’ampio raggio d’accesso da ovest alle asperità del Carso. Con una superficie totale di circa 52 ettari di terreno, Redipuglia è il più grande sacrario italiano dedicato ai caduti della Grande Guerra. Realizzato su progetto dell’architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni, fu inaugurato ottant’anni fa, il 18 settembre 1938 dopo dieci anni di lavori. L’imponente opera, conosciuta anche come il sacrario “dei Centomila”, custodisce i resti dei soldati caduti nelle zone circostanti, in gran parte già sepolti inizialmente sull’antistante Colle di Sant’Elia. Al culmine della scalinata e sulla sommità dei 22 gradoni (alti 2,5 metri e larghi 12) che, in ordine alfabetico, custodiscono le spoglie dei 39857 soldati identificati, due grandi tombe coperte da lastre di bronzo raccolgono i resti di oltre 60 mila soldati ignoti. Nell’anniversario dell’inizio della Prima guerra mondiale, Papa Francesco scelse proprio il sacrario per pronunciare un’omelia dai toni molti forti e decisi.” Qui, in questo luogo, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia”. E aggiunse da Redipuglia: “La guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione!”. Un messaggio universale che vale oggi più che mai.
Marco Travaglini