Ci sono foto che non lasciano nulla all’immaginazione. Più che parlarci, attraverso l’immagine, ci urlano in faccia la disperazione di una realtà rappresentata dalla morte violenta e dallo sgomento che provoca. A Potočari, sobborgo di Srebrenica nella Bosnia orientale, appena varcato il cancello d’ingresso del Memoriale che ricorda il genocidio del luglio 1995 c’era una scala sulla destra che scendeva sottoterra in una sala dove ristagnava un’aria fredda. L’ambiente era spoglio. Poche sedie, una panca. Alle pareti alcune gigantografie di foto in bianco e nero calamitavano l’attenzione. In un paio si vedevano le bare allineate nel capannone dell’ex fabbrica di batterie, in attesa dell’inumazione. In un'altra resti di vestiti riemersi da una delle fosse comuni (ne hanno trovate molte decine solo nei dintorni) dove furono gettati i cadaveri. Un senso di disagio lo provocava quella in cui s’intravedeva il gelido paesaggio della zona con l’immagine dei boschi che sfumava tra nubi basse e nebbia. Gli stessi boschi dove, nell’intento di sfuggire alla follia omicida del generale serbo Ratko Mladić e dei suoi uomini, trovarono la morte migliaia di bosgnacchi, i musulmani di Bosnia. C’era anche la foto di una bambola rotta, con la faccia tagliata, probabilmente strappata dalle mani di una bambina: un giocattolo innocente che, deturpato e scaraventato nel fango, si era trasformato in una sagoma inquietante. Queste foto, senza didascalia, raccontavano ciò che accadde meglio delle parole che, in casi come questi, suonerebbero vuote, fuori posto. In fondo, inutili. Non erano tante quelle immagini. Non c’è bisogno di ostentare l’orrore per smuovere la memoria. L’ultima, però, era un pugno nello stomaco ancora più forte. Una mano guantata di bianco, probabilmente di un anatomopatologo forense sollevava dalla terra di una fossa comune un’altra mano senza vita, scheletrica, nera, sporca. Il contrasto era netto e la pellicola in bianco-nero lo accentuava fino a renderlo sconvolgente, impressionante. Pareva che la mano morta chiedesse aiuto, si aggrappasse per trascinarsi disperatamente fuori da quell’orribile buco di morte. E l’altra, oserei dire con una delicatezza caritatevole, la sosteneva, consapevole che ormai non restava più nulla da fare se non consentirle una dignitosa sepoltura dopo l’orrore della morte violenta e la profanazione del corpo. Le ho viste molte volte quelle foto e forse oggi sono anche state tolte, spostare altrove. Rappresentavano un particolare crudo, un’immagine diretta, senza mediazioni. Quella mano, presumibilmente di uno dei tanti uomini massacrati a Srebrenica o nei dintorni, rifletteva la tragicità della morte con una efficacia senza pari. Nel nostro immaginario la morte viene raffigurata con teschi e ossa umane, scheletri disegnati, dipinti o incisi sulle lapidi dei vecchi cimiteri, a volte sulle inferriate. La figura più classica, diffusasi dopo il Medioevo, è quella dello scheletro che brandisce la falce che recide la vita, allo stesso modo in cui taglia l'erba o il grano. Ma in quel caso la fotografia della mano scarna e sporca di terra rendeva l’idea del degrado del corpo, evocando la morte nel modo più macabro e diretto che si possa immaginare. Per questo colpiva, lasciando senza fiato. Difficilmente si poteva ignorare ma altrettanto difficilmente gli sguardi indugiavano su quell’immagine di indicibile drammaticità. Ricordo che ad alcuni ragazzi, giovani studenti alla ricerca di brandelli di verità in una storia molto contemporanea, provocò crisi d’ ansia e conati di vomito, ad altri la tensione si sciolse in pianto. Nessuno rimase indifferente. Ci sono immagini, situazioni che fanno riflettere molto più di altre. Chi visita oggi il campo di sterminio di Auschwitz resta attonito sfilando davanti alle teche del museo colme di scarpe, protesi, occhiali, capelli. O alle centinaia di barattoli vuoti di zyklon B, il cianuro solido che a contatto con l’aria sprigionava la sostanza letale che non lasciava scampo a chi era stato costretto ad entrare nelle “docce” delle camere a gas. Lo stesso lo vedemmo a Belgrado nel luglio del 2010 quando le Donne in nero, attiviste antimilitariste di Serbia, inscenarono una originalissima manifestazione in ricordo di Srebrenica. Raccolsero 8372 paia di scarpe, tante quante furono le vittime accertate dell’eccidio (anche se erano state probabilmente molte di più) allo scopo di farne un monumento nella capitale serba. Così centinaia di paia di scarpe di ogni tipo, foggia e colore – da uomo, donna, sportive e per bambini, ciabatte e stivali –vennero allineate per terra sulla Kneza Mihailova, frequentatissima strada pedonale nel cuore di Belgrado, su striscioni con scritte contro la guerra e in memoria delle vittime di Srebrenica. Stasa Zajovic, esponente delle Donne in Nero belgradesi e coordinatrice della manifestazione, disse in quell’occasione: “Donare un paio di scarpe significa riconoscere che il genocidio di Srebrenica è accaduto realmente. Ed è un modo per esprimere partecipazione e solidarietà alle vittime”. Alla domanda del perché si era scelto di utilizzare le scarpe come elemento simbolico, Stasa rispose: “Per me, le scarpe sono l'impronta delle persone scomparse a Srebrenica, e quest'impronta ha una grande importanza. Le scarpe sono il simbolo delle vite perdute e vogliamo che ogni singola scarpa abbia un suo spazio, perché coloro che sono stati uccisi non sono solamente ossa. Sono persone i cui sogni, desideri, amori e dolori sono stati uccisi insieme a loro. In più, le scarpe sono un simbolo di movimento, di cambiamento”. Le scarpe come le foto in bianco-nero. L’immaginario visivo di una memoria dura da elaborare per chi piange o vuol piangere i propri morti. Dura anche per chi, ad ovest e a est di Srebrenica, ne porta il grande peso sulla coscienza ancora oggi, a pochi mesi dal trentesimo anniversario del genocidio consumatosi nella città dell’argento e del sangue. Marco Travaglini