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Riflessioni postume a sei lustri dal conflitto in Bosnia

2025-01-15 10:52

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Riflessioni postume a sei lustri dal conflitto in Bosnia

Nel bel mezzo della terra degli slavi del sud, s’incontrano l’Oriente e l’Occidente e ci si accorge davvero che molto della storia europea inizia e finisce lì. Un tempo era il territorio al centro di un paese che non c’è più, la parte più jugoslava della Jugoslavia. Era anche la quintessenza dei Balcani se li immaginiamo per quello che da sempre sono stati, luogo d’incontro, scambio, mescolanza, appartenenza a un destino comune. “Bratstvo i jedinstvo”, “fratellanza e unità”, come recitava il motto coniato da Tito, il sentimento che univa i popoli della Repubblica Federale era lo spirito laico, interetnico e tollerante sul quale si fondava la l’idea stessa di Jugoslavia. Poi ci fu la guerra con tutto il suo carico di orrori e tragedie e dopo il conflitto venne la “terribile pace”. Sono passati trent’anni dalla guerra che insanguinò quell’angolo d’Europa. Una guerra che ha rappresentato l’evento più cruento del lungo processo disgregativo che ha messo fine alla Jugoslavia. Tre decenni fa tornavano nel cuore dell’Europa, a poche centinaia di chilometri da casa nostra, i campi di concentramento, gli assedi alle città, il genocidio e i profughi. Molte domande sollevate da quei conflitti sono rimaste aperte, e molte lezioni rimangono ancora da capire. Perché le guerre in ex-Jugoslavia non parlavano del loro passato nei Balcani ma del nostro futuro in Europa. Pensiamo a ciò che accadde a Srebrenica. Tutti noi abbiamo negli occhi le immagini delle stragi accadute in diversi luoghi del mondo e molti di noi ricordano quasi con esattezza dove e con chi eravamo l’11 settembre del 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle. Pochi, troppo pochi ricordano invece quell’11 luglio del 1995 quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Fu il triplo dei morti rispetto a New York, oltre cento volte il numero delle vittime al Bataclan di Parigi in quel tremendo 13 novembre 2015, ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’era, aperto su quel buco tra le montagne della Bosnia nord-orientale, l’occhio della Tv. Non c’erano immagini che riportassero la cronaca dell’orrore in quel piccolo paese dal nome quasi impronunciabile. Si disse poi che la gente era al mare, l’Europa distratta, in Bosnia la guerra stava finendo e ciò che accadeva non era granché “notiziabile”. E poi, perché era necessario sapere, conoscere, eventualmente indignarsi? Così nacque, nel silenzio e sul sangue di quegli innocenti, la terribile complicità omissiva. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato girarono la testa dall’altra parte. Chiusero gli occhi pur sapendo (non occorreva immaginazione alcuna) cosa stesse accadendo. I lupi azzannarono gli agnelli e ne fecero strage. Si lasciò che il massacro avvenisse, che ciò che era stato iniziato qualche anno prima a Visegrad, sulle sponde della Drina e nei pressi del ponte narrato da Ivo Andric, terminasse nel sangue a Srebrenica. Circa diecimila musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni, vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. Tutto avvenne in una decina di giorni, dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, dall’inizio del conflitto, il 10 luglio era caduta nelle mani del generale Ratko Mladić. Il 19 aprile 2004 il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) definì quello di Srebrenica ufficialmente “un genocidio”, il primo in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma tra omissioni e rinvii si è fatto troppo poco. Sono passati più di tre decenni. L’unica cosa certa è che ora tutti sanno. Ma si tende ancora a rimuovere, a dimenticare. Restano le tombe, il ricordo di uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri, detenzione illegale e sterminio. Dieci anni fa scivolò via il centenario della Prima guerra mondiale. Poteva essere un’occasione per guardare con occhi critici al Novecento, il secolo iniziato con l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e terminato con le guerre balcaniche degli anni ’90. Poteva essere l’occasione per riflettere su un evento che rappresentò un salto di qualità nell’esercizio della guerra: quasi dieci milioni di soldati mandati al massacro, ventuno milioni i feriti. Una guerra che produsse un numero di morti tre volte superiore a quello complessivo delle vittime di tutti i conflitti combattuti nei diciannove secoli che ci separano dall’inizio dell’era cristiana. Come per i conflitti balcanici restavano i cimiteri, le tombe, i contorni della tragedia. Solo che in Bosnia e nei Balcani occidentali la memoria non è storicizzata, è del tutto contemporanea e non attenua il ricordo di ciò che accadde. Ci sarà mai giustizia? Sei lustri dopo rimane un profondo senso di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per i carnefici di allora, in buona parte ancora a piede libero e considerati da alcuni persino degli “eroi”. E’ quindi necessario raccontare ciò che accadde a Srebrenica affinché il grido delle madri, mogli e figlie di chi venne ucciso nella città “dell’argento e del sangue” non resti inascoltato. Chiedono ancora verità e giustizia, accertamento delle responsabilità, condanne per tutti i criminali. In alcuni casi l’hanno ottenuta, con gli ergastoli comminati ai due peggiori criminali di guerra, Radovan Karadžić e Ratko Mladić. Uno dei più grandi intellettuali balcanici, Predrag Matvejevic, scrisse parole amare e sagge: “I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”. La Bosnia ancora vive tempi difficili, stretta tra crisi economica, corruzione politica e incertezze istituzionali figlie del trattato di Dayton. Persino le acque e le piogge hanno più volte seminato negli ultimi anni dolore e morte, trascinando nel fango vecchie e nuove povertà, facendo “viaggiare” le restanti mine, riaprendo vecchie ferite. Sono passasti trent’anni dall’imbroglio sanguinoso di un massacro costruito in laboratorio e sdoganato all’opinione pubblica come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie. In quell’orribile inganno, un vero e proprio depistaggio, l'Europa cadde in pieno per inerzia, interesse o complicità. Ben prima delle crisi e delle guerre in Afghanistan, Iraq, Maghreb, Palestina, Libano, Siria e Ucraina la Bosnia ha segnato il fallimento dell'Occidente e dell'Europa. La rimozione nasceva anche dalla fatica di ammetterlo. In fondo la Bosnia è stata (e in buona parte lo è ancora) l’unico paese europeo con una forte radice musulmana, mescolata alla cultura slava e mitteleuropea e con una millenaria storia di contatto tra le tre religioni monoteiste: l’ebraica, la musulmana e la cristiana. Una terra dove le moschee convivono con i boschi di latifoglie e di conifere e i palazzi barocchi e liberty si perdono negli antichi mercati ottomani o alle soglie degli hammam. Dove il canto del muezzin e il suono delle campane delle chiese ancora oggi, e nonostante tutto, trovano il modo di convivere. “Esiste un Islam europeo ma è un’anomalia che disturba, nello schema dello scontro Oriente-Occidente”, confidò con amarezza Predrag Matvejevic a Paolo Rumiz. Lui che era nato a Mostar, croato-bosniaco con cittadinanza italiana, aggiungeva: “Li hanno fatti fuori per questo. Rappresentavano una complessità intollerabile in un mondo fatto di bianco e nero. Oggi esiste solo l’Islam che spaventa. Dell’altro chi se ne frega. I musulmani dal volto umano al massimo si compatiscono, come quelli di Srebrenica. Chi se ne importa di un popolo che si fa massacrare e poi non mette nemmeno una bomba? E invece in Bosnia c’è un Islam europeo, che lascia le donne libere, le gonne corte, che accetta i matrimoni misti e quando c’è del buon vino lo beve, senza problemi. Una risorsa dimenticata, che si sarebbe potuta giocare contro i fondamentalisti”. Ma non è stato fatto. E questa è una delle eredità peggiori della guerra e di un Occidente che troppo spesso si chiude a difesa dei propri confini e guarda distrattamente o addirittura con odio e disprezzo verso “gli altri”.


Marco Travaglini



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